A distanza di sette anni dal film che ha sconvolto e spinto su nuove frontiere la settima arte contemporanea, George Miller torna al cinema con Three Thousand Years of Longing, tratto dal racconto Il genio nell’occhio d’usignolo del 1994 della scrittrice A. S. Byatt.

La nuova fatica del regista australiano narra di una studiosa di nome Alithea, interpretata da una sempre ottima Tilda Swinton, che, nonostante sia soddisfatta della propria vita, incontra un Djinn (Idris Elba) da cui riceve l’offerta di poter esprimere tre desideri in cambio della sua libertà. La loro conversazione, in una stanza d’albergo a Istanbul, porta a conseguenze che nessuno si sarebbe aspettato, tra storie che attraversano millenni e amori immortali.

L’ANTI MAD MAX:FURY ROAD

Con questa nuova pellicola George Miller produce un anti Mad Max: Fury Road: un’opera sicuramente ambiziosa, che cerca di abbracciare e dare risposte a temi e quesiti universali quali l’origine del concetto di amore e desiderio, ma che allo stesso risulta essere una narrazione piccola e intima e, a conti fatti, una “semplice” storia d’amore.

Sin dalle prime battute il film è un monumento celebrativo nei confronti di storie, racconti, favole e dell’importanza e della potenza di queste nella vita delle persone.  Alithea è infatti una studiosa che vive la sua esistenza attraverso le vicende narrate nei libri – e Miller lascia intuire che il discorso si può ampliare anche al cinema, con la presenza all’interno del film di un fenachistoscopio, un antico strumento ottico che contribuì alla nascita del precinema – e si sente completa e realizzata. La ricerca della comprensione della realtà da parte della protagonista – il cui nome corrisponde infatti a quello della dea greca della verità – passa attraverso le pagine di libri stampati.

Dall’incontro tra  Alithea e il Djinn scaturisce un racconto da camera – che rievoca quasi una seduta di psicanalisi –  alternato a una narrazione episodica, ambientata in diverse epoche della storia umana e mischiata a elementi fantasy e a tratti horror in cui Miller può dare sfogo al suo lato visionario. Questo tuttavia viene fuori in questo caso in maniera trattenuta, con la presenza di sequenze suggestive, ma in maniera centellinata, con il perenne obiettivo di non uscire dal focus della vicenda e di non fagocitare la narrazione con la CGI.

UN ATTO D’AMORE VERSO LE STORIE

La pellicola è estremamente radicata nel periodo che stiamo vivendo ed è una delle prime a riflettere in maniera indiretta sulla pandemia. Al netto di riferimenti espliciti presenti nella pellicola, come le tante mascherine indossate dai personaggi nel corso del film, la scelta di ambientare la maggior parte della narrazione all’interno di una stanza non è casuale, quasi a voler simulare una situazione di lockdown. In questa situazione di reclusione, ciò che ci può aiutare a fuggire e a volare con la fantasia sono proprio le storie, siano esse letterarie, cinematografiche o raccontate a voce da un Djinn, che di prigionia in spazi angusti se ne intende. Il film risulta essere dunque un inno potente al concetto stesso di racconto, un atto d’amore verso coloro che narrano storie, in questo caso il  Djinn, da parte di persone che amano usufruirne, un sentimento talmente forte da portare gli ascoltatori a voler imporre il proprio amore. Indirettamente sembra quasi che Miller lanci una frecciatina agli spettatori che cercano di forzare la propria linea di pensiero sui creativi in modo che accontentino le loro aspettative, quando in realtà siamo tutti consci che le migliori esperienze cinematografiche della nostra vita sono spesso quelle in grado di prendere vie totalmente imprevedibili, come ad esempio il precedente film del regista. 

Al netto di ciò la morale del film è che indipendentemente da chi tu sia le storie hanno un valore salvifico. Nella società contemporanea tuttavia possono ancora esistere? L’arte e la creatività in un mondo di algoritmi possono ancora giocare un ruolo? Questo conflitto viene messo in scena attraverso la sofferenza fisica del Djinn e Miller non sembra essere troppo positivo sul futuro, pur aprendo uno spiraglio alla possibilità di una convivenza.

CONCLUSIONI

A livello tecnico il regista si conferma su altissimi livelli, con un frequente utilizzo di grandangoli e un montaggio sia di scena che sonoro di altissima caratura, con transizioni visive di grande raffinatezza. Oltre ai due protagonisti principali Idris Elba e Tilda Swinton, due professionisti di impeccabile bravura, trova spazio per un piccolo ruolo anche una vecchia conoscenza del cinema e della pubblicità in Italia, la modella e attrice australiana Megan Gale, già presente in Mad Max: Fury Road.

Dopo sette anni di assenza dal grande schermo e in attesa di vedere il suo prossimo film dal titolo Furiosa, prequel del capolavoro Mad Max: Fury Road, con Anya Taylor-Joy nei panni del ruolo  iconico interpretato da Charlize Theron nel film di origine, Miller torna al cinema con un film decisamente più piccolo, una storia intima e romantica, che non vuole rivoluzionare il cinema, ma che risulta essere a un inno al cinema, alle storie, a ciò che rende grande l’arte e che ci ha permesso di innamorarci di essa.

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Luca Orusa, Caporedattore