Anche se non è mai stato definito ufficialmente tale, The Suicide Squad di James Gunn ha, fin dai primi annunci, assunto sempre più la forma di un soft reboot del quasi omonimo film di David Ayer piuttosto che di un sequel canonico, con tanto di articolo determinativo nel titolo che conferisce al film una sorta di status definitivo non ufficiale. Con il film del 2016 condivide alcuni personaggi e la premessa di base, ma per fortuna se ne distacca completamente nel tono e nella scrittura.
La violentissima scena pre-credits è tutta un programma, un macabro carosello che si prende gioco delle nostre aspettative e ci introduce a Gunn e al suo gusto per la violenza splatter. Dopo questa introduzione, la trama entra nel vivo: la Suicide Squad è chiamata a ristabilire l’ordine sull’isola di Corto Maltese governata da uno spietato dittatore anti-americano. Ma, come la squadra scoprirà nel corso della missione, c’è di più; nello specifico un complotto che coinvolge uno scienziato pazzo (Peter Capaldi), orripilanti esperimenti e un alieno gigante a forma di stella marina.
Già questo breve riassunto del plot rende l’idea di un tipo di lungometraggio semplice e old school, in cui questa squadra di mercenari alla A-Team (solo più violenti) si trova coinvolta in un conflitto tra militari cattivissimi e nobili rivoluzionari, e dà il peggio di sé senza preoccuparsi troppo di danni collaterali. Come nel film di David Ayer la squadra, capitanata dal colonnello Rick Flag (Joel Kinnaman), è formata da un male assortito gruppo di super-villains, tra cui Bloodsport (Idris Elba, in un ruolo simile al Deadshot di Will Smith ma più scanzonato) e Harley Quinn (Margot Robbie) che agiscono sotto minaccia della perfida Amanda Waller (Viola Davis). L’approccio da parte di James Gunn è invece l’esatto opposto: laddove il primo film non risolveva mai la contraddizione tra una premessa fondamentalmente assurda e la serietà con cui è stata sviluppata, The Suicide Squad abbraccia tutta l’assurdità di un mondo di pittoreschi personaggi in calzamaglie colorate, senza scadere mai nella farsa. Atteggiamento incarnato in particolare dall’iperpatriottico Peacemaker (un divertente John Cena) e soprattutto da Harley Quinn, di gran lunga il personaggio migliore del DCEU grazie anche al carisma e alla bravura di Margot Robbie. Per quanto riguarda Harley Quinn sorprende tra l’altro vedere che non è stato abbandonato lo sviluppo intrapreso in Birds of Prey.
La regia di James Gunn è iper-dinamica, con tanto di vertiginose carrellate alla Sam Raimi. Il regista è molto abile nel gestire le scene d’azione nonché a dare a ciascun personaggio un tempo adeguato -anche se tende ad eccedere in flashback-, compresi quelli minori come King Shark (doppiato in originale da Sylvester Stallone) e Polka-Dot Man (David Dastmalchian). Non mancano gli sviluppi emotivi, come il rapporto simil-paterno tra Bloodsport e Ratcatcher II (Daniela Melchior), né bordate all’arrogante politica estera USA: nel quadro complessivo sono semplici pennellate per dare colore alla storia, ma si seguono nella loro piacevole prevedibilità.
Lo zampino di Gunn è visibile in quasi ogni sequenza, dalla costruzione delle gag ai suddetti momenti emotivi alle scelte di casting che comprendono i sodali Michael Rooker, Sean Gunn e pure Nathan Fillion in un cameo… che fa cadere le braccia. Ma c’è di più dell’impronta autoriale di Gunn: è palese che il ragazzo prodigio della Troma si sia divertito come un matto nello scrivere la storia di questi bastardi dal cuore d’oro, senza freni morali o produttivi di sorta, e nel muoverli in un mondo in cui le classiche didascalie extradiegetiche sono formate da elementi dell’ambiente come colonne di fumo, radici nel terreno, sangue e cervella.
Questo divertimento non funziona sempre, e gli fa spesso sfuggire di mano le redini della narrazione: come si diceva, il suo ricorso a flashback per approfondire i singoli personaggi è spesso controproducente per il ritmo della storia che presenta numerosi cali, e non tutti i subplots raggiungono una conclusione soddisfacente. Ma al netto di tutte le sue imperfezioni, The Suicide Squad è forse il cinecomic che più si avvicina all’idea di “fumetto al cinema”. Mentre nel cinema “scultoreo” di Zack Snyder questa fedeltà al medium di partenza si risolve spesso in scelte puramente estetizzanti, James Gunn riesce a rendere compiuto il passaggio dalla carta allo schermo, richiamando l’estetica del primo e rispettando la specificità del secondo.
Rispetto ai precedenti exploits di Gunn nel genere con i due Guardiani della Galassia, soprattutto il primo, The Suicide Squad è un film meno coeso ma più personale, liberatorio per il suo autore che esprime fino in fondo la sua sensibilità folle e il suo amore per i fumetti. Inoltre è di gran lunga il miglior film DCEU: chi disprezza i cinecomic difficilmente cambierà idea con questo film, ma se il genere è solo una “giostra cinematografica”, The Suicide Squad è una giostra dannatamente divertente.
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