In concorso per il Leone d’oro alla 81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia arriva The Order, sesto film di Justin Kurzel che torna al cinema tre anni dopo Nitram. L’ultimo lavoro del regista australiano aveva tratteggiato la psicologia del mass murderer Martin Bryant denunciando la liberalizzazione delle armi dei Paesi d’oltreoceano, mentre ora nel suo primo approdo a Venezia si sposta dalle coste australiane all’hinterland dell’Idaho per espandere la portata del discorso, scandagliando un America in cui odio, ignoranza, razzismo, antisemitismo e culto delle armi sono diventate fondamenta culturali e identità collettive dei gruppi di estrema destra. La sceneggiatura di Zach Baylin adatta un po’ scolasticamente il libro di saggistica The Silent Brotherhood scritto da Kevin Flynn e Gary Gerhardt, per seguire la caccia al gatto e al topo fra l’agente dell’Fbi dell’Idaho Terry Husk (Jude Law) e il leader del gruppo radicale The Order, Bob Mathews (Nicholas Hoult), che nel 1983 tramò una guerra contro il governo federale statunitense assaltando mezzi blindati e creando sommosse nel nordovest degli Usa.
Per iniziare a parlare di The Order ancor prima dell’opera di Flynn e Gerhardt dobbiamo partire da un secondo libro contenuto al suo interno, The Turner Diaries (I diari di Turner), un romanzo scritto da W. L. Pierce sotto lo pseudonimo di Andrew Macdonald, pubblicato per la prima volta nel 1978 e chiamato anche il “libretto rosso” per via del colore della sua copertina. Perché dobbiamo parlarne? Perché caso vuole che in uno degli eventi più significativi del nostro presente, l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 da parte dei sostenitori dell’allora presidente Trump sono stati appesi dei cappi in riferimento a un’impiccagione contenuta proprio in quelle pagine, quella di una ragazza bianca rea di di avere avuto rapporti sessuali coi “negri”. Immagino abbiate già capito, in pratica si tratta di una valanga di scemenze e teorie complottiste messe in forma di romanzo dove un gruppo di cretini reazionari si ribellano al governo dei cattivoni ebraici e all’avanzata dei pericolosissimi afroamericani, giustificando ovviamente atti di terrorismo e omicidi di massa. E pensate un po’? Con grande sorpresa è diventato sin da subito uno dei testi di riferimento dei movimenti estremisti e dell’Alt-right.
Questa breve parentesi era necessaria per capire quanto The Order si innervi profondamente nella storia di un Paese che non ha davvero mai fatto i conti con le propagande d’odio guidate dalla violenza insita nelle ideologie delle supremazie bianche: è il libretto rosso a dare il via a un poliziesco della frustrazione dove il personaggio di Jude Law, munito di baffi ottantini, sguardo burbero e appassionato di caccia ai cervi, assieme al suo giovane aiutante Jamie Bowen (Tye Sheridan) deve riuscire a placare le insurrezioni dell’omonima setta del titolo che fonda il suo credo proprio sui Diari. Sono passati quarant’anni dagli eventi del film e ancora oggi, come ai tempi, è difficile, per non dire impossibile, poter parlare di America come popolo compatto, organico, coeso. Non esiste un popolo americano ma solo tantissime, miriadi di piccole sette che il capo politico di turno deve riuscire a capire come aggregare sotto un’egida unica e temporanea, magari trovando quel giusto compromesso fra nazionalismo e localismo. Ma cosa succede nelle lande sterminate e desolate dove regna l’ignoranza che gli stessi politici possono sfruttare a loro vantaggio?
Jude law è l’agente Terry Husk
La cosa più interessante di The Order, infatti, è proprio l’idea di un’America lacerata, divisa in sette (qualcuno arriverà a definire come tale anche lo stesso corpo dell’Fbi), e il viso bambinesco di Nicholas Hoult restituisce bene l’ignoranza infantile ma terrificante di una banda di razzisti che sbandierano incoscientemente svastiche nei loro covi. Dispiace infatti che nel film di Kurzel, dove tutto procede fin troppo lineare sebbene con toni efferati e solenni, ci si limiti alla tensione tra predatore e preda senza approfondire davvero cos’abbia amplificato – e cosa amplifichi tutt’ora – i sentimenti di alienazione e di rabbia tra coloro che si sentono minacciati dai cambiamenti sociali e demografici. Sapremo sempre poco sia della vita di Terry Husk sia di quella di Bob Mathews e il film non raggiunge mai il coraggio travestito da uniforme di un BlacKkKlansman del caso, per citare un film che procedeva meno col pilota automatico e riusciva SpikeLeeniamente a mixare il dark alla commedia.
Al film di Kurzel si può rinfacciare di sfiorare il didattico, o addirittura il didatticismo, per sfregiarlo di quegli ismi che si preoccupa di attaccare, eppure questa idea di cinema rigoroso è di una solidità notevole. La fotografia dai toni muschio e ocra di Adam Arkapaw metaforizza bene la purulenza morale sedimentata nell’entroterra dell’Idaho e i volti dei protagonisti sono quelli giusti: se pensiamo al didascalismo di un film che lo scorso anno ha fatto la sua comparsa sempre in concorso, quello di Green Border, capiamo come Kurzel, a differenza di Holland, almeno ha il coraggio di non nascondersi dietro all’estetizzazione del bianco e nero ma sfrutta le regole dei film classici per dare vita al più classico dei film. Probabilmente si poteva evitare la collocazione in concorso, fattore che ne ha alzato le aspettative, però la robustezza stilistica e l’impatto tematico di The Order gli consentono di incidere, perlomeno in modo più che decoroso, sulle inquietudini del nostro tempo. Il che non è poco.
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