Quattro anni dopo Sorry We Missed You (2019), il regista britannico Ken Loach torna nelle sale con The Old Oak, lungometraggio del 2023 presentato in concorso durante la scorsa edizione del Festival di Cannes – e in anteprima al Festival di Locarno, dove ha ottenuto il Premio del Pubblico. Sembrerebbe superfluo presentare Ken Loach: classe 1936, nativo di Nuneaton, Inghilterra, aderente alla corrente artistica inglese Free Cinema e politicamente impegnato fin dagli esordi dietro la macchina da presa. Nella sua carriera, iniziata prima sul piccolo schermo con la serie televisiva Z Cars (1962) e proseguita in sala con Poor Cow (1967), ha ottenuto fra i massimi riconoscimenti attribuibili a un cineasta: fra questi, due Palme d’Oro (nel 2006 per Il vento che accarezza l’erba e nel 2016 per Io, Daniel Blake), il Leone d’Oro alla Carriera (1994), il Premio Robert Bresson (2012), e l’Orso d’Oro alla Carriera (2014).
Di umili origini – entrambi i genitori erano operai di fabbrica – Loach ha saputo utilizzare l’arte cinematografica per denunciare le condizioni di vita precarie di ceti meno abbienti, di esclusi, di individui dimenticati dalla società – e The Old Oak non fa eccezione.
Disclaimer: chi vi scrive terrebbe molto a dirvi che il nuovo film di Loach è stato visto in anteprima durante il Festival di Locarno 2023. Prima della proiezione, il direttore artistico Giona Nazzaro ha accolto sul palco di Piazza Grande il cineasta britannico, che ha ottenuto una calorosa, entusiastica ed emozionante standing ovation di svariati minuti. Successivamente, Loach ha introdotto il film senza parlarne in maniera approfondita, virando invece sulla denuncia verso le ingiustizie che attanagliano questo mondo, inclusa la crisi ecologica. Loach, alla veneranda età di ottatantasette anni, ribadisce con vigore la sua imperitura e tenace sensibilità verso le questioni che agitano la nostra grande casa comune, facendosi umile portavoce di battaglie di cui troppo spesso ci dimentichiamo. Chi vi scrive ritiene perciò necessario ricordare lo straordinario impegno politico di Ken Loach, nonostante non abbia parole benevole per il suo nuovo film.
E poi ci troveremo a bere una pinta alla Vecchia Quercia
Inghilterra, oggi: in una cittadina mineraria del Nord dove il tempo pare essersi fermato, TJ Ballantyne (Dave Turner) è il proprietario dell’Old Oak, l’ultimo pub rimasto aperto che, tuttavia, mostra chiari segni di deterioramento. Il quieto trantran degli abitanti viene interrotto quando giunge in città un bus che reca a bordo un gruppo di rifugiati siriani, ai quali vengono assegnate le abitazioni abbandonate da chi si è trasferito altrove. Fra questi, Yara (Elba Mari) subisce un atto di razzismo quando un giovane inglese le strappa di mano la sua macchina fotografica e la schernisce deliberatamente: l’intervento di TJ non basta, e l’oggetto finisce a terra, in frantumi. Da quel momento, fra TJ e Yara si stabilisce una stima reciproca, nonostante le malelingue degli habitués dell’Old Oak, le quali svelano al protagonista una realtà ben diversa da quella in cui aveva vissuto fino a quel momento.
Il vecchio pub, oramai decaduto, diventa dunque un luogo entro il quale Loach elabora la sua denuncia contro il razzismo radicato nelle piccole comunità chiuse all’integrazione. TJ, che pur pare essere a suo agio entro questa situazione, subisce una metamorfosi interiore, e con lui l’Old Oak, che da luogo “chiuso” diventerà “aperto” alla diversità culturale ed etnica. Questa apertura viene simboleggiata dall’apertura di un’area adibita al convivio che, in precedenza, era stata abbandonata proprio in virtù di quella immobilità che attanagliava la comunità.
Un dramma sociale “preconfezionato”
Nonostante queste premesse e la trattazione di un tema così rovente come il razzismo, il film di Ken Loach pare incompleto. Come molti critici hanno evidenziato, The Old Oak resta costantemente sulla superficie, sotto ogni punto di vista: i personaggi di TJ e Yara sono sì ben scritti, ma comunque manchevoli di quell’ulteriore approfondimento psicologico che indurrebbe a una maggior identificazione da parte del pubblico; lo scontro fra la comunità di rifugiati siriani e la comunità dei local si riduce alla semplificazione “buoni contro cattivi”; la linea narrativa, seppur caratterizzata da qualche exploit apprezzabile – ad esempio, la storia della cagnolina di TJ – è insopportabilmente tradizionale, “da manuale”. Nondimeno, appare evidente come alcune soluzioni narrative siano votate a solleticare la commozione dello spettatore, soprattutto in contesti di visione da sala cinematografica sold out e con un pubblico entusiastico (quale è stata la visione di chi vi scrive): tuttavia, a mente fredda, è evidente come questi momenti siano volutamente preconfezionati, diremmo superflui, ai fini del ritmo narrativo.
Ken Loach è un cineasta di prima categoria, così come lo sceneggiatore Paul Laverty, collaboratore del regista da diversi decenni (e autore dello script di The Old Oak), e lo abbiamo sottolineato fin dal principio. Tuttavia, appare evidente che, forse per questioni dovute alle possibilità distributive, siano state fatte scelte che, inevitabilmente, hanno inficiato la buona riuscita del lungometraggio. Forse sarebbe bastata una manciata di scene in più, o l’eliminazione di qualche personaggio superfluo al fine di approfondire la psicologia dei principali; o ancora spendere qualche parola in più sulle tradizioni e sulle radici storico-culturali di quel piccolo paese dell’Inghilterra del Nord.
Per la comunità che verrà
Occorre sottolineare, tuttavia, che il tema fondamentale del film – il razzismo – viene trattato con il massimo del riguardo da parte di Loach e Laverty: le scene in cui viene rappresentata l’intolleranza dei local nei confronti di Yara e della sua famiglia sono realistiche, vere, e (purtroppo) adattabili a qualsiasi contesto socioculturale. In questi termini, Ken Loach si pronuncia a favore di una piena integrazione, in un futuro non così lontano. Il suo “sol dell’avvenire” – e chi ha avuto modo di vedere The Old Oak capirà il mio riferimento all’ultimo film di Nanni Moretti – non è irraggiungibile: la soluzione è nelle mani delle persone e nella loro capacità di provare empatia, gli uni verso gli altri.
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