Un nome che per generazione è stato – e continuerà ad essere – associato al genere horror è senza dubbio quello di Stephen King: ad oggi l’autore conta all’attivo all’incirca novanta opere letterarie, di cui almeno cinquanta sono facilmente ascrivibili al genere dell’orrore. La fama di questi racconti non solo deriva però da carta e penna, ma anche – e a volte soprattutto – dalla scelta di adattare continuamente alcune di queste storie per il piccolo ed il grande schermo: Carrie di Brian De Palma, Shining di Stanley Kubrick, Christine di John Carpenter sono alcuni esempi di grandi registi dietro ad alcuni di questi adattamenti; le mini-serie di Salem’s Lot nel ‘79 e di It nel ’90 hanno portato un vasto pubblico televisivo a conoscere King. Ancora oggi si continua a pescare tra le storie del “maestro del brivido” per realizzare nuovi prodotti, a volte sotto forma di remake/sequel/prequel/reboot ed altre volte invece come produzioni completamente nuove. Non sorprese quindi particolarmente l’annuncio di voler adattare il racconto breve The Monkey presente nella raccolta Scheletri del 1980, è stato invece il nome del capo del progetto a destare più di qualche curiosità – e perplessità, per alcuni: Osgood Perkins.

Già regista di quattro pellicole dell’orrore – il cui recentissimo Longlegs ha diviso gli spettatori in due fazioni, tra chi ha apprezzato enormemente il film e che invece lo ha detestato –, Perkins si è costruito negli anni un nome tra i fan specchio proprio della divisione appena presentata: alcuni lo ritengono uno dei più grandi tra i nuovi nomi nel panorama horror, capace di rivoluzionare il genere mescolando rimandi al passato con tecniche nuove; per altri invece Perkins è semplicemente un regista sopravvalutato, incapace di costruire racconti funzionali e funzionanti e che si nasconde dietro a riprese dall’intento artistico ed estetico per celare la sua scarsa abilità registica. Al di là dei pareri personali e del gusto relativi ai suoi lavori, risulta inevitabile un velo di sorpresa nell’accostamento di un regista rinomato per i suoi racconti lenti, in cui la tensione si costruisce nel silenzio con lunghe inquadrature suggestive, ad un racconto dai tratti spietatamente gore e splatter, il cui scopo principale risulta senz’altro quello di mostrare quante più morti brutali possibili (ricordiamo come in February si assistesse a soltanto due morti, mostrate principalmente fuori campo, o in Gretel & Hansel questo elemento rasentasse quasi lo zero).

Non importa il come o il perché, ma solo il quando

La struttura estremamente basilare del romanzo è stata per quest’occasione completamente stravolta da Perkins stesso (qui anche sceneggiatore): dopo una sequenza iniziale con protagonista il Capitano Petey (Adam Scott) che stabilisce perfettamente il tono sopra le righe che avrà tutto il resto della pellicola, ci vengono presentati i protagonisti Hal e Bill (Christian Convery per la versione bambina e Theo James per quella adulta), due gemelli identici d’aspetto ma opposti di personalità che vivono con la mamma single Lois (Tatiana Maslany) dopo che il padre se n’è andato scomparendo dalle loro vite. Cercando tra gli oggetti del padre, i due entrano in possesso di una misteriosa scimmia che, ogni qual volta verrà azionata girando la chiave sulla sua schiena, suonerà il suo tamburo portando ad una morte atroce – ed estremamente sopra le righe – di una persona casuale. Compreso il pericolo i due decidono di sbarazzarsi della scimmia, vivendo in pace per venticinque anni fino al momento in cui alcune morti misteriose convincono i due che la scimmia potrebbe essere tornata.

Le aggiunte di Perkins in fase di sceneggiatura – che compongono sostanzialmente qualsiasi elemento al di fuori della piccola scimmietta omicida – permettono al film di presentare due tematiche molto care al regista: i rapporti famigliari e la morte. Entrambi presenti anche nelle precedenti pellicole di Perkins – sul fattore genitoriale, basti pensare al mistero del padre di Kat in February, all’abbandono dei piccoli Gretel e Hansel del film omonimo o al ruolo di Ruth Harker e dei genitori delle vittime in Longlegs; sul fattore morte, spesso inevitabile in un film horror, abbiamo l’aspetto di ricongiunzione con il padre attraverso gli omicidi ed il sangue in February, l’odio ed il rancore del fantasma assassinato in IATPTTLITH, il cibarsi dei bambini per mantenere i poteri e la giovinezza in Gretel & Hansel e l’omicidio rituale per salvare e/o ascendere in Longlegs – qui le due tematiche fungono da bilanciamento verso le numerose sequenze splatter, permettendo al racconto non solo di non essere una mera “fiera del sangue” ma di accompagnare lo spettatore ad una riflessione sull’ineluttabilità della morte e sull’inutilità di scappare dai propri doveri famigliari costruita in pieno stile Perkins, con inquadrature lente e cariche di significato.

Ma quanto è bella la morte, Os!

Se è vero che il film riflette su queste tematiche, è altrettanto vero che il cuore pulsante della pellicola sta senz’altro nelle sue morti. Attraverso una dinamica molto vicina ad un Final Destination, il tamburellare della scimmia diventa presto sinonimo di morte atroce con il rischio altrettanto alto di portare ad una veloce stagnazione e ripetizione degli stessi elementi (non a caso King utilizza il racconto breve e non il romanzo). L’inserimento delle sopracitate tematiche di fondo ma soprattutto una grade varietà permettono alle sequenze più violente del film di risultare, in realtà, sempre intrattenenti e divertenti, soprattutto perché presentate con una comicità chiara e per nulla nascosta: tra commedia slapstick e splatter alla primo Peter Jackson, Perkins costruisce momenti che lasciano di stucco anche i più rodati del genere, con fermi immagine che rientrano di diritto tra i momenti più iconici del genere horror degli ultimi vent’anni.

A condire il tutto troviamo le ottime interpretazioni del cast che muove le proprie file tra dialoghi sarcastici e momenti assurdi, con un Theo James dal volto e dalla mimica facciale perfetta – e che costruisce un binomio Hal/Bill di fattura tutt’altro che banale o mediocre – accompagnato da grandi nomi come Tatiana Maslany, Adam Scott o Elijah Wood che, nel seppur limitato minutaggio a loro dedicato, si lanciano in interpretazioni davvero ottime e facilmente memorabili (soprattutto Wood). Davvero ottimi anche i più giovani, con un Christian Convery forse ancora più bravo di James nel mostrare le differenze tra i due gemelli, un buon Colin O’Brien nei panni del figlio Petey che si lancia in battute sarcastiche ma che nasconde in alcune espressioni e movimenti del corpo una recitazione ricca di sfumature ed un apprezzabile Rohan Campbell, che fa sempre piacere vedere dopo Halloween Ends.

Quasi superfluo nominare tutto il comparto tecnico, non per una (assente) mediocrità del lavoro svolto, quanto piuttosto per l’aver ancora una volta mostrato i muscoli e l’aver impacchettato un progetto con tutto al posto giusto, dalla fotografia ai costumi, dalle scenografie agli effetti speciali, dal trucco alle musiche, fino ad una regia incredibile esaltata ancora di più da un montaggio magistrale.

Conclusioni

Al suo primo lavoro su commissione, Osgood Perkins ne esce a testa altissima, dimostrando al mondo come un autore può uscire dalla sua comfort zone, presentando qualcosa di nuovo senza però dimenticare il proprio passato e la propria cifra stilistica. Certamente The Monkey non è un film per tutti e non è il “classico film alla Os Perkins”, ma proprio per questo ci sentiamo di consigliarlo a priori: fan dell’horror più spinto o di quello più casual, fan di Perkins o suoi principali detrattori, andate al cinema a vedere questo film perché potreste disprezzarlo con tutto voi stessi come potreste trovarvi davanti ad una delle vostre nuove pellicole preferite. Come sempre, la scelta è tutta in mano a voi (o forse al tamburellare di una scimmietta?)

Mattia Bianconi
Mattia Bianconi,
Redattore.