The Holdovers, i residui, gli scarti. Alexander Payne sceglie il periodo natalizio, momento nel quale la dissonanza tra aspettativa e realtà si fa ancora più forte, per raccontare una storia profondamente umanista di solitudini che si incontrano.
Nonostante il film sia stato costruito con l’intento di sembrare un prodotto cinematografico legato a un tempo passato – si apre con titoli di testa dalla grafica vintage e prosegue nel racconto con una grana nelle immagini che si assocerebbe subito alla pellicola, se non fosse che è stato girato interamente in digitale perché paradossalmente era il modo migliore di rendere questa sensazione reale– riesce invece ad imporsi da subito come un classico in grado di prescindere una mera classificazione temporale. The Holdovers infatti funziona non perché sembra venire da un’altra epoca ma perché combina tutti i migliori elementi del cinema di una volta con quello contemporaneo.
Per la seconda volta nella sua carriera, dopo Nebraska, Payne non si occupa in prima persona della sceneggiatura, affidandola a David Hemingson, consolidato autore televisivo (How I Met Your Mother) prestato per la prima volta al cinema e ora tra i favoriti nella corsa alla statuetta degli Academy Awards. Ispirandosi all’idea che sta alla base del film francese del 1935 Merlusse di Marcel Pagnol – uno studente solo costretto a trascorrere le vacanze di Natale insieme al suo detestabile professore, accomunati entrambi dal non avere un posto migliore dove andare – la storia si fonde con un’atmosfera che, come un’eco, risuona perfettamente con la New Hollywood anni settanta. Emoziona, evitando le facili trappole del sentimentalismo, con dialoghi che spingono la storia in direzioni inaspettate non appena pensiamo di aver capito dove vuole andare a parare.
Se ci trovassimo di fronte a uno di quei registi intensamente prolifici da un film all’anno con la possibilità di scegliere un attore come alter ego, sicuramente la scelta ricadrebbe su Paul Giamatti, e non è difficile capire il perchè. La sua capacità di tenere cuciti insieme vulnerabilità e acredine, alternandoli con una naturalezza che aveva impreziosito anche Sideways vent’anni prima, rispecchia l’intenzione di fondo del regista di amalgamare toni da commedia tagliente al dramma emotivo, con un risultato agrodolce che non rinuncia mai alle sfumature.
Il suo ritorno sullo schermo è in questo caso, più che mai, il cuore pulsante del film. Qui interpreta Paul Hunham, un cinico e impopolare insegnante con la fissazione per le lettere classiche e per la disciplina, che riversa le proprie frustrazioni con severità sugli studenti. Nella maggior parte dei casi le vittime devono espiare la colpa di essere portatori sani del binomio rich & dumb, con tutto a disposizione senza la necessità di dare mai qualcosa in cambio.
La Barton Academy è infatti uno di quei collegi al maschile profondamente nepotisti dove si proclama a gran voce l’aspirazione all’eccellenza, guidato da persone disposte a promuovere chiunque in grado di poter sostenere economicamente i fondi dell’istituto. Quello che accade al di fuori delle mura scolastiche rimane però in sottofondo, quasi impercettibile, se non fosse per l’accenno alla violenza che consumava i giovani meno privilegiati nel conflitto in Vietnam, tra cui l’ex studente e figlio dell’inserviente della mensa Mary, una Da’Vine Joy Randolph calibrata nel restituire il dolore di una madre in lutto. A scagliarsi contro questo muro di ipocrisia è proprio Paul che in cambio ne ottiene l’infame compito di supervisionare i ragazzi che, per i motivi più disparati, non possono tornare a casa per le feste. È un dispiacere reciproco condiviso da tutti, per questo, quando un padre preso dal rimorso atterra in elicottero nel cortile della scuola, nessuno esita a seguirlo per un’improvvisata vacanza sulla neve, tranne Angus, la cui madre è troppo impegnata per rispondere e dare l’assenso.
I tre protagonisti si ritrovano insieme ancora una volta per obbligo riuscendo a trarne, per scelta, beneficio. Con il suo esordio, Dominic Sessa, qui studente tanto intelligente quanto sregolato, riesce a catturare quella sensazione di incomprensione che ci si porta dietro da adolescenti, imponendosi da subito come un giovane attore su cui mantenere uno sguardo attento.
Gli spazi chiusi delle aule, dei corridoi e della mensa diventano quindi un corrispettivo spaziale di una chiusura al mondo ben più profonda che abita i personaggi, tutti a loro modo orfani e accomunati da un profondo senso di mancanza. Il motivo che li spinge a restare ai margini della loro stessa esistenza viene spiegato con abilità narrativa nel passare dei minuti, senza fretta e senza inutili colpi di scena, lasciando invece il tempo ai conflitti di esplodere per poi, naturalmente, rimarginarsi. Non c’è una lezione da imparare, solo tre persone schiacciate dai propri problemi che si trovano ad affrontare quello che il mondo si aspetta da loro. Che sia poi la prospettiva maschile quella attraverso la quale si cerca maggiormente di capire come dare forma alle sensazioni e ai pensieri può essere una chiave importante di lettura. La conoscenza e la risoluzione di sé passa attraverso la comunicazione con l’altro ed è forse questo che i personaggi maschili di The Holdovers cercano di fare per tutto il tempo: cercare di trovare un modo più efficace di parlarsi e quindi conoscersi.
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