Attualmente in concorso come Miglior film internazionale ai Premi Oscar 2025, The girl with the needle è il terzo lungometraggio e un nuovo racconto di emarginazione e criminalità per Magnus von Horn, giovanissimo regista svedese già notato da Cannes per i suoi precedenti The Here After e Sweat.

Squarci di quotidiano abisso

Una Copenhagen infranta, ingabbiata in nebbiosi riti industriali e classi sociali è la città, ancora pervasa dagli spettri della Prima Guerra Mondiale, nel cui squallore si muove Karoline (Vic Carmen Sonne). Operaia in un’industria tessile convertita alle esigenze belliche, viene cacciata da un tugurio all’altro, in un’esistenza appesa sul bilico delle esigenze economiche e una breve relazione con il proprietario della fabbrica. Quando rimane incinta affida il bambino a Dagmar (Trine Dyrholm), pratica proprietaria di un negozio di dolci, in realtà agenzia clandestina di adozioni. Nella sequela di uomini imbelli, inefficaci o semplicemente assenti, Karoline e Dagmar stringono un’improbabile alleanza per accogliere e dare in adozione neonati venuti al mondo nel contesto di difficoltà economica.

Non aspettatevi un racconto verista, una fotografia dettagliata della società dell’epoca o un dramma sulla condizione femminile. Il film di Magnus van Horn è ispirato a un fatto di cronaca nera tra i più famosi della storia danese moderna, e non solo. Sin dai primi istanti, The girl with the needle trasfigura il reale, assume volti evanescenti sempre in bilico tra lucida fotografia del reale e nerissimo incubo.

Un labirinto di nebbia e mattoni

Dramma storico, noir gotico con appena qualche stilettata, improvvisa e appuntita come un ago, di allucinato grottesco. The girl with the needle è fatto di molte anime e molti generi, e sfugge per un pelo dalle gabbie del film da discourse – quelli che vorrebbero parlare dell’attuale, o che come tale vengono promossi – in cui pure si potrebbe inquadrare senza difficoltà. Quel che dice sulla società, sulla condizione femminile e dell’individuo sotto lo stivale del capitalismo è stato detto – e meglio – da altri film, ma lo fa con uno stile allo stesso tempo familiare e sottilmente perturbante. C’è un po’ del Lynch di The elephant man in questo racconto di freaks tra le ombre di una grande città, un po’ di Lang mentre pone sotto la lente d’ingrandimento pulsioni nascoste e desideri inconfessabili delle sue anime dannate. Cinefilia occasionalmente furba ma mai troppo invadente, servita dal lucido bianco e nero della fotografia di Michał Dymek.

L’orrore, nel racconto firmato da van Horn e dalla co-sceneggiatrice Line Langebek, è strisciante e pervasivo, avvolge come un sudario le figure smarrite in un labirinto di squallide camere, mattoni e fognature, in cui gli stessi confini tra vittima e carnefice sono sfumati. Ciò che conta è l’atmosfera, più che i personaggi scarnificati dal proprio dolore – di cui, alla fine, non rimane poi molto – e una storia piuttosto disorganica nel suo sviluppo; rimane memorabile il mood opprimente di un incubo connaturato nel contesto storico e sociale – ma in cui, forse, germoglia ancora un seme di speranza.

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Valentino Feltrin,
Redattore.