L’amarcord-movie intimo, introspettivo e retrospettivo, più o meno metafilmico, è ormai un diffuso sottogenere del cinema contemporaneo, col quale autori maturi e affermati rivisitano in prima persona – appena occultati sotto un acerbo alter ego finzionale – le difficoltà, i sogni e le speranze della crescita, le radici familiari e identitarie, il background esistenziale e l’origin story del mestiere intrapreso. In cerca delle preziose scintille memoriali disseminate lungo il racconto di formazione emotiva ed educazione cinematica, che ne ha favorito e guidato le scoperte, le epifanie e il percorso da predestinati, o da fulminati strada facendo, sulla via della settima arte che li ha consacrati all’adorazione delle platee internazionali.
Dopo Belfast di Kenneth Branagh, È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson, e, in toni e forme diverse, Empire of Light di Sam Mendes, Bardo di Alejandro González Iñárritu e Armageddon Time di James Gray, anche il regista per antonomasia, il più celebre e popolare al mondo, Steven Spielberg, si cimenta in The Fabelmans con la malinconica, sofferta e affettuosa rievocazione autobiografica del suo passato personale, familiare e professionale.
Attraversato dai folgoranti baluginii di luce della magia del cinema alla maniera degli accecanti flash prodotti dagli spari dei pistoleri nel B-western da cortile che l’aspirante giovane cineasta Sammy Fabelman (un ottimo e vulnerabile Gabrielle LaBelle) gira con amici e parenti, con le puntine da disegno che bucano la pellicola scavandovi all’interno una luminosa fenditura di senso aggiuntivo. Accrescendo la suspense, l’epica rozza ma irresistibile della narrazione, l’immedesimazione complice e sbalordita degli spettatori, rapiti e disposti a sospendere l’incredulità anche di fronte ai trucchi più semplici, come zampilli cascanti di gelato trasformati in disgustosa cacca d’uccello in caduta libera sui ragazzini in spiaggia (i primi colpi dell’arte della narrazione spielberghiana e della sua stupefacente effettistica a misura d’individuo).
IL PIÙ GRANDE SPETTACOLO DEL MONDO
Il racconto si apre nel New Jersey in un freddo gennaio del 1952, dove il bimbo Sammy Fabelman è accompagnato per la prima volta in una sala cinematografica dai genitori (gli ottimi Paul Dano e Michelle Williams). Terrorizzato dall’imponenza delle figure gigantesche e torreggianti del grande schermo, che è per lui un’arcana grotta del mistero, su cui scorre il clamoroso crash ferroviario de Il più grande spettacolo del mondo (The Greatest Show on Earth, 1952) di Cecil B. DeMille: l’immagine catastrofica del treno che travolge a tutta birra l’auto e i convogli sui binari, si fissa negli occhioni spalancati di Sammy in una fatale scena primaria che si schianta sul suo volto e si imprime all’istante nella sua mente con la forza di una pellicola impressionata.
Un incredibile incidente di percorso che mette in moto la vivace immaginazione del bambino, al tempo stesso turbato e affascinato. Un traumatico Big Bang che lo scuote con uno shock di tale inaudita potenza (“la persistenza della visione”, spiega suo padre) da spingerlo a rimettere in scena quanto visto con un modellino-giocattolo, fatto correre in pista nel garage di casa. E a filmare il tutto con una cinepresa 8mm, per imbrigliare la pericolosa eccedenza di un sogno più vero del vero, finalmente catturato e addomesticato dalla coscienza.
Il battesimo del fuoco – con l’accecante luce del cinema – è avvenuto: per Sammy è solo la prima fermata verso il compimento di un impeto visuale e di un incontenibile temperamento artistico, il primo step di un apprendistato umano e lavorativo nell’universo delle immagini. In un viaggio che sarà tanto appagante quanto accidentato, in cui imparerà a rielaborare gli inevitabili scossoni e i manrovesci della realtà con la stessa provvidenziale sensibilità che immette nella costruzione della grande illusione del cinema.
LA CONQUISTA DEL WESTERN
Appoggiato alla (ri)scrittura calibratissima e mai appesantita di Tony Kushner, lo stile adottato da Spielberg nel rimaneggiare una materia iconica e imperitura, fluttuante e incandescente come il cinema da lui amato e imitato – ripercorso col filtro altrettanto flagrante, ma sfuggente e ingannevole, di ricordi ed esperienze personali, mascherati come un velo o una lente posta davanti all’obiettivo (e al noioso diktat dell’obiettività) -, è quello di un’equilibrata classicità, piana e lineare ma di sicuro impatto per lo spettatore, che in ogni frangente aderisce senza sforzo alle amabili insicurezze e allo stupore meravigliato di Sammy.
Con la difesa positiva e la strenua conservazione (in video) della dimensione infantile, mai banalmente regressiva, che da sempre marchia di autenticità perduta il cinema umanista e immaginifico di Spielberg. Il biopic buffamente camuffato, e la psicanalitica auto-fiction infusa di mitologie del cinema e inevitabili esigenze drammaturgiche, non perdono mai la bussola del coinvolgimento narrativo, evitando che il piacere del racconto affoghi nell’eccesso compiaciuto di citazionismo isterico e traboccante.
The Fabelmans certifica una volta per tutte ed eleva al massimo grado ciò che Mauro Resmini, nella sua monografia, individua come un tratto fondamentale del regista: la cinefilia di Spielberg “non è quella gelida del postmodernismo, puntellata da citazioni e inside jokes. […] Si tratta piuttosto di una cinefilia “di mezzo”, emozionata e partecipe, naturalmente incline ai generi (il western, il film bellico, il film d’avventura, i b-movies di fantascienza) e perdutamente innamorata dell’epica di John Ford, Victor Fleming e David Lean. Così, più che riflettere sul cinema attraverso la cinefilia, Spielberg istintivamente confonde l’uno nell’altra, nell’infinita ricerca di un modo di raccontare che copra l’abisso tra suggestioni personali e miti universali” (Mauro Resmini, Steven Spielberg, Il Castoro cinema, 2014 ).
Spielberg staziona dunque dentro i grandi generi classici solo il tempo che gli serve a inquadrarne i tratti formali e gli stilemi fondanti per lo sviluppo del suo io registico in fieri, espresso dal suo imberbe alter ego Sammy, in ammirazione ed emulazione dei padri nobili che riuscirà perfino a incontrare: il western fordiano di Ombre Rosse (1939) rifatto in carrozza di seconda mano, con le infiltrazioni a mano armata e l’epica dei duelli di L’uomo che uccise Liberty Valance (1962). E poi il film di guerra, con le lacrime vere che si distendono sugli spari e la polvere, coprendo la strage degli uomini, aprendo all’empatia della compassione umana sul campo di battaglia, che il nostro regista dispiegherà in opere come Salvate il soldato Ryan (1998).
A SCUOLA DI CINEMA
Oppure richiama un genere per ripensarne gli stereotipi, come nel godibilissimo segmento high-school movie dal sapore vintage (più che il ballo in palestra del suo West Side Story, richiama certe amare o nostalgiche atmosfere da prom night di vecchi compagni di scorribande come George Lucas (American Graffiti, 1973) e Bob Zemeckis (Ritorno al futuro, 1985). In cui le canoniche macchiette del loser bullizzato e dell’atleta belloccio vengono scombussolate, grazie alla duplice capacità rivelatoria e quasi medianica del cinema di registrare al tempo stesso un’impassibile verità in trasparenza e un surplus di realtà aumentata celata a un primo sguardo.
Può sembrare incongruo che il prestante e ottuso bad guy Logan, bel tomo tutto cazzotti, machismo e vessazioni fino a un attimo prima, mostri poi una finissima e sorprendente capacità di autoanalisi emotiva, angosciato all’improvviso dalla insostenibile perfezione aurea dell’immagine del suo doppio di celluloide, brillantemente colto dall’occhio partecipe – quanto involontariamente? – della cinepresa di Sammy.
Ma il punto è che Spielberg vuole illustrarci come il cinema sia al tempo stesso il canale privilegiato in cui riversare e sciogliere tensioni, conflitti e abusi subiti nella giungla della vita reale, e uno strumento trasfigurante di diagnostica interiore così esatto, potente e trasversale da essere addirittura in grado di bucare la corazza di stolida aggressiva e smania predatoria di uno come Logan, il più stronzo di tutti, consentendogli di accedere a un’impensabile visibilità del sé, e a una complessa e problematica re-visione della sua identità, tutt’altro che granitica e muscolare.
SPIELBERG FAMILY VALUES
La parte più strettamente privata del vissuto di Spielberg emerge invece in una descrizione umoristica e disincantata del milieu ebraico di origine, radunato negli aspri e divertiti confronti al tavolo della cucina (tra tovaglie e stoviglie di carta, perché le mani da pianista della mamma non vanno certo usurate nel lavaggio dei piatti). Con la nonna paterna interpretata dalla simpatica Jeannie Berlin, che rimodula un ruolo di cinismo senile simile a quello offerto in Cafè Society (2016) di Woody Allen. Spicca soprattutto il siparietto confessionale, velatamente surreale – come in un dialogo dei fratelli Coen -, nella funambolica incursione del sozzo e stramboide zio Boris (Judd Hirsch), sgarruppato ma acuto sopravvissuto circense, che redarguisce e incoraggia la vocazione di Sammy, presagendo strappi e ferite dolorose di chi come il nipote ha davanti il glorioso ma travagliato destino dell’artista. Un’inedita, per certi versi insospettabile, chiave di mordace e stralunata commedia umana spielberghiana, che fa il paio con l’irrisione della devozione religiosa nella scena della fidanzata innamorata – e per nulla timorata – di Gesù, che ruba un bacio a Sammy con la scusa di soffiargli in bocca lo Spirito Santo.
SCENE MADRI E CINE-PADRI
La madre di Sammy, Mitzi, è l’architrave centrale dell’intreccio, figura fondamentale a cui il regista ritorna per perdonarla idealmente (come in preciso dialogo del film), e assumerla come irrinunciabile e protettivo spirito guida di tutto quanto realizzerà da adulto. Perennemente circonfusa da un’aura abbagliante fatta della stessa materia palpitante, irreale e sognante del cinema (“tu mi vedi per quella che sono veramente”, confessa la donna al figlio), come fosse una falena in costumi d’organza, una inquieta e immacolata creatura di pura luce attivata dal proiettore. Un Peter Pan al femminile, del quale Sammy disvela l’ombra scura nelle pieghe delle immagini al rallentatore. Una dolce e testarda eroina di un infiammato melodramma, che abbraccia la quiete domestica ma incrina la patina soft della sit-com innocua e accomodante di Casa Fabelman (curiosamente dissonante la breve scena della fuga in macchina con i figli verso il vortice di un tornado in stile mago di Oz della suburbia, simile alla corsa in auto verso l’incendio delle colline hollywoodiane della schizofrenica madre della piccola Marilyn in Blonde di Andrew Dominik).
Una femminilità disarmonica, fragile e tragica, in cerca del diritto alla sensibilità e all’innata vena artistica oltre il dettame sociale, che si dibatte imprigionata come una scimmietta in gabbia in un pastelloso musical drama in technicolor degli anni ’50: luminosa e oscura, soave ed eterea (suona il piano nel salotto di casa col vestito della festa, danza come una delicata vestale notturna in camicia da notte, irradiata dalle luci dei fanali dell’auto davanti al fuoco del campeggio), ordinaria e domestica, affettuosamente familiare e violentemente perturbante, generosa ed egoista, amorevole e respingente.
La recitazione intensa e dolente di Michelle Williams, sempre – volutamente – sul filo dell’overacting esagitato e nevrotico, è funzionale a rappresentare proprio l’eccesso sentimentale, dirompente e scomposto del cinema. Il cinema, vuole dirci Spielberg – e non a caso la madre è osservata da uno sguardo bifocale, con ideali flashback retrospettivi (ri)proiettati però al contrario, dal punto di vista del cineasta vergine e ingenuo -, emerge proprio in quest’enfasi emotiva e gestuale che scompagina i composti equilibri di facciata. È questa la sua verità: il quid di sentimento, paura, pazza intemperanza e desiderio sovraccarico incarnato da Mitzi.
Complementare alla figura più assente e distaccata, per quanto mai davvero anaffettiva, del padre Burt: inappuntabile, affidabile ed efficiente come una cinepresa che ha tutti i pezzi al loro posto – del resto è lui stesso a rivelarne al figlio tutti i dettagli, con piglio scientifico e ingegneristico -, ma che raramente si accende di vero calore che possa far vibrare e infiammare la pellicola.
Servono l’una e l’altra cosa, unite e inestricabili, per fare il cinema: la tecnica e la poesia, il freddo strumento e il cuore pulsante che gli dona vita. Al posto dell’automa meliesiano di Hugo Cabret (2011) di Scorsese, Spielberg mette in moto il meccanismo del tempo perduto e ritrovato riattivando i segreti annidati nel suo umanissimo e imperfetto nucleo genitoriale. Costruisce la sua familiare macchina-cinema sotto i nostri occhi, assemblando nel salotto di casa e al tavolo di montaggio i due pilastri fondamentali della sua esistenza, che si rianimano fuori e dentro lo schermo: l’indispensabile razionalità della tecnica, lo zelo rigoroso del lavoro meccanico (il padre), e l’irrinunciabile fervore artistico e affettivo che carica di vera passione le immagini in movimento (la madre). Traslando il dramma individuale in una storia di riscatto universale in cui tutti possono identificarsi, proprio attraverso il riconoscimento delle verità scomode e dell’empatia naturale che si genera nel contatto – e nel contrasto – con l’evidenza ordinaria e la fantasia strabiliante delle immagini.
PRIME VISIONI E FINAL CUT
The Fabelmans è così un grande film di e sul montaggio. Inteso sia come riflessione pratica sull’arte squisitamente analogica e artigianale di composizione e combinazione creativa dei frammenti che, legandosi, infondono senso e ritmo alle ammalianti motion pictures (molte le inquadrature in dettaglio anatomico sulle strisce di pellicola attaccate al tavolo, lo scorrimento dei rulli, il ronzio dei proiettori), sia come metafora umana e soggettiva dello sforzo terapeutico di Sammy di far disperatamente stare insieme – e insieme per sempre, nell’immortalità non deperibile delle immagini-cinema – ciò che intorno a lui sta inesorabilmente disgregandosi (il matrimonio di Burt e Mitzi, e con esso l’unità della famiglia).
E, per estensione, diventa traccia del profondo lavorio interiore a lungo rimuginato e metabolizzato da Spielberg, fino a presentare davanti a un vasto pubblico (come accade più volte all’ansioso Sammy) la sua vita di curiosa e normale diversità come fosse un rewatch di episodi franti e dispersi che si raccordano e saldano in una possibile sequenza compatta e unitaria, sicura e protetta.
Un montato felicemente caotico di dolorosi giornalieri quotidiani e inserti fuori posto che trovano una definitiva collocazione nel catartico final cut della materia autobiografica, esorcizzata tra sogno, realtà, ricordi, revisioni e salvifiche manipolazioni ad arte. Girando idealmente la manovella avanti e indietro proprio come al tavolo di montaggio. Restando bloccati con stupore incredulo o intervenendo lucidamente, laddove necessario, per suturare gli strappi e riempire i vuoti di senso.
SENTIERI SELVAGGI DEL GIOVANE ARTISTA
Se c’è un motivo stilistico caratterizzante in The Fabelmans, è quello del movimento circolare. Presente, a livello figurativo, nelle numerose immagini delle bobine di pellicola arrotolata, che ruotano e scorrono in tutto il film – nonché nel tracciato ovale del mini-set del modellino ferroviario, con il trenino che, fissato nel filmato di Sammy, gira in tondo all’infinito sul circuito dei binari (prima dello schianto finale) -, emerge con ancor più fluida chiarezza nell’uso ricorsivo della panoramica a 360°, impiegata da Spielberg nei momenti di maggior spiazzamento emotivo del protagonista, idealmente paralizzato al centro di situazioni e scenari più grandi di lui, che gli si srotolano – letteralmente – intorno, causandogli una brusca vertigine.
Prima, la cinepresa compie un giro completo attorno a Sammy nel momento in cui questi scopre sbigottito la verità sulla vera natura della relazione della madre con l’amico di famiglia Bennie (Seth Rogen), in una toccante e prolungata scena in montaggio alternato, dove la musica eseguita al pianoforte da Mitzi (il concerto in D minore di Bach) si fa spia del disagio e del precipitare del climax drammatico, sottolineando come incupito commento sonoro le immagini incriminate sotto gli occhi da Sammy.
Poi, quando Sammy si trova catapultato nell’anticamera dell’ufficio del burbero John Ford (un David Lynch già di culto, appena nascosto da benda e cappello), il movimento a 360° in semi-soggettiva passa in rassegna le locandine dei grandi capolavori western del maestro appesi al muro, quasi issando il ragazzo alle soglie della giostra del grande cinema, sulle note elegiache (Ethan returns) dello score di Sentieri Selvaggi (1956). L’attesa spaurita di Sammy di ricevere udienza, mentre il venerato maestro, sovranamente distante, si prende tutto il tempo del mondo per accendersi un sigaro con calma olimpica, e la fulminante lezione sugli orizzonti cinematografici appesi al quadro, sono momenti di grandissimo cinema.
Ma è forse nella bella e fugace immagine del piccolo Sammy che osserva ipnotizzato lo schianto del suo trenino, proiettato sulle sue piccole dita raccolte a formare un mini-schermo di fronte a sé, che è contenuta la sintesi di tutto il pensiero dello stupore spielberghiano: una salvifica e mirabolante fascinazione ottica che in ogni momento dobbiamo tenere a portata di mano, stretta tra le dita, senza che nessuno possa mai portarcela via.
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