In molti abbiamo sgranato gli occhi nel 2017 all’uscita su PC del meraviglioso Cuphead, videogioco run’n’gun autoprodotto dai fratelli Chad e Jared Moldenhauer, che con una trama volutamente leggera e un gameplay classico -ben definito ma difficilissimo nella pratica- è diventato in brevissimo tempo un cult game su cui in molti hanno perso ore a suon di tentativi fallimentari e imprecazioni. Nel gioco i due protagonisti, i fratelli Cuphead e Mugman, due omini con la testa a forma di tazza, dopo aver avuto un piccolo incidente con il diavolo Satanasso, sono costretti a raccattare anime di vari bizzarri personaggi in giro per le Isole Calamaio, al fine di donarle al demonio evitando così la propria dannazione. Un’avventura immersa in un mondo dotato di un comparto scenografico maestoso che rivela le vere intenzioni dei creatori: creare un monumento allo stile dell’animazione americana degli anni ’30: una commistione così forte tra videogioco e animazione non si vedeva dai tempi di Dragon’s Lair (Don Bluth, 1983).

Le citazioni e i richiami a quel mondo sono innumerevoli, a partire dei protagonisti, Cuphead con i pantaloncini rossi (ovvio richiamo a Topolino) e Mugman con le braghe blu (meno ovvio riferimento a Oswald il Coniglio Fortunato). Tra i tanti nemici che i due eroi affrontano, Re Dado richiama proprio Walt Disney in persona, artista a cui i fratelli Moldenhauer si sono chiaramente ispirati, arrivando persino ad ipotecare le proprie case per finanziare il loro progetto così come aveva fatto “lo zio Walt” con i suoi primi lavori. Da allora l’universo di Cuphead si è espanso, anche se in maniera più contenuta rispetto ad altri prodotti di successo: giocattoli, merchandising vario, albi a fumetti editi in Italia da Editoriale Cosmo, un prossimo DLC in sviluppo da anni e, ora, una serie animata per Netflix, The Cuphead Show!. Se questa relativa penuria di prodotti a tema non ha placato la fame di molti fan, la prima stagione della serie non ha saziato le -alte- aspettative di molti spettatori.

La serie vede come protagonisti sempre i due fratelli “tazza”. Cuphead e Mugman Vivono in un cottage a forma di teiera sotto la custodia di Nonno Bricco, sfuggendo spesso ai compiti loro assegnati e desiderando avventure, giocando ad infastidire il negoziante Porkrind, finendo sempre per mettersi nei guai. Anche in questa serie, così come nel videogioco, li vediamo alle prese con molti personaggi come Il malvagio Satanasso, il mellifluo Re Dado e la misteriosa Lady Chalice.

È evidente che il problema principale sta nell’individuazione del target. La trama del videogioco consisteva letteralmente in un patto col diavolo; qui, purtroppo, il patto di sangue è un debole pretesto narrativo che inevitabilmente fa seguire idee comiche piuttosto stantie. Certo, questa serie tutto voleva essere tranne che originale. Di base, infatti, ci troviamo davanti ad un tipico show animato sulla scia dello scontro Nickelodeon vs. Cartoon Network: episodi tendenzialmente autoconclusivi, con un accenno di trama orizzontale che diventa progressivamente più importante, gag slapstick e surreali e una coppia di protagonisti sciocchi, in un solco di tradizione che parte da Topolino-Paperino e Bugs Bunny-Daffy Duck fino ad arrivare a Spongebob-Patrick e Gumball-Darwin (ed è soprattutto a quest’ultima coppia che i protagonisti della serie devono molto). Tuttavia, si poteva certamente osare di più considerando il vasto parco di personaggi creati e presenti nel gioco. I vari nemici (tutti stupendi) sono i grandi assenti, eccetto per un paio di casi (il duo di rane pugili Ribbs & Croaks e il trio di verdure furfanti) e qualche cameo, nonostante la natura episodica della serie non contrastasse affatto con una narrazione a livelli tipica dei videogame. La serie qui risulta decisamente carente, soprattutto se paragonata al materiale originale, che riusciva a dare spazio ad ogni piccolo e -apparentemente- insignificante elemento sullo schermo.

Il connubio grafico tra animazione classica e sfondi in CGI è ben riuscito. In particolare la resa grafica in stile anni ‘30, derivante dalla prima era Disney, ma che richiama anche cartoni quali Looney Tunes o Popeye tra i tanti, fino anche alle serie animate più popolari degli ultimi anni (Flapjack, Adventure Time, Steven Universe), è davvero eccellente. Anche la durata di ogni singolo episodio -15 minuti- è perfetta, e fa sì che lo spettatore non si annoi mai, invogliandolo a proseguire nella visione. Ma tutto ciò non basta. Pochi mesi prima, sulla stessa piattaforma, abbiamo potuto godere di serie animate come Strappare lungo i Bordi e Arcane, certo profondamente diverse ma che come Cuphead godevano, ancor prima dell’uscita, di una fanbase già fervida. Entrambe avevano segnato una cesura con il passato: con Zerocalcare nella produzione animate in Italia (e nella trasposizione su schermo dei propri fenomeni pop), mentre con Arcane abbiamo visto un respiro narrativo quasi inaudito, di cui vi avevamo già parlato in passato. Nei suoi primi 12 episodi, lo show tratto dal videogioco più colorato del decennio manca di coraggio nell’innovare. In un’epoca di rivoluzioni, il mondo animato portato in scena questa volta, fatto di gentili omaggi e poco altro, diventa quasi una restaurazione.

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Nicolò Cretaro, Redattore