Se la prima tranche della sesta e conclusiva stagione di The Crown ci aveva accompagnati con delicatezza verso il drammatico destino di Lady Diana Spencer (qui la recensione), il secondo lotto di episodi (su Netflix dal 14 dicembre) si spalanca in medias res, senza indugi né orpelli commemorativi, nel grigiore brumoso della cappa di dolore e tormentata elaborazione del lutto di uno sperduto e affranto Principe William (la new entry Ed McVey). Il mesto e muto rientro a Eton tra il sostegno dei compagni, la saggia protezione della royal granny e l’astiosa conflittualità col padre Carlo; la crisi di una complicata identità in formazione e un’angosciosa incertezza nella definizione del futuro specchiate nei cupi e similari dilemmi di una Corona che procede insicura e claudicante verso la fine del millennio. In un nuovo secolo che rischia di lasciarsi alle spalle i gravosi retaggi monarchici, tra l’esplosione di consenso per il New Labour di Tony Blair, le minacce del terrorismo globale, altri lutti e defezioni familiari e un complesso lascito da gestire.

Sondati in Willsmania (episodio 5) ferite e rancori del giovane erede al trono, obbligato a un raffronto impossibile e sfinente col fantasma privato e mediatico della madre defunta, l’episodio 6 (Ruritania) va subito al nocciolo della prassi tesi-antitesi-sintesi tipica di The Crown, aggiornamento puntale della disputa argomentativa di spinte individuali e leggi di Sistema fra auctoritas alleate ed ego rivali. Vediamo ad esempio Tony Blair (Bertie Carvel) irritare la sconcertata platea femminile del Women’s Institute (siamo nel 2000). Si rivela un fiasco il tentativo di aprire un dialogo col corpo conservatore dell’associazione di donne middle class. La smaltata retorica blairiana da convention non sfonda laddove ha invece la meglio il pragmatismo complice e genuino di Queen Elizabeth. La risoluzione drammaturgica di Morgan sta al solito, senza troppi manicheismi, nel concertato e tenace equilibrio degli opposti, con l’opzione radicale del cambiamento che non invalida mai del tutto il peso concreto e specifico di una tradizione fieramente resistente.

Si rivede nel complesso, con più sostanza, la struttura dialogica delle regolari udienze premier-monarca, leitmotiv delle prime stagioni. Con gli schietti confronti tra QE e Blair a promuovere la bozza flessibile di una monarchia – e di un plot riformabile in senso moderno. Anche se, decreta Elizabeth, quasi tirando le somme filosofiche degli attributi della serie, «la monarchia non è razionale, o democratica, o logica, tantomeno giusta», perché la gente vuole – e gli spettatori pure – «la magia e il mistero, tutto ciò che è arcano, eccentrico, simbolico e trascendentale». Siamo ancora una volta, l’ultima (?), al centro equidistante del fascino duplice di The Crown: discreto e indiscreto, scrupoloso e seducente, di understatement in piena trasparenza. Seduti in un ideale parterre dei commoners ma al centro del banchetto Reale, tra la distanza irriducibile da un aulico e inaccessibile reame da fiaba anacronistica, coi suoi sussiegosi figurini inamidati e impolverati come (au)tomi di Storia Antica abbandonati sulle scrivanie di mogano, e l’immedesimazione empatica e sentimentale, partecipe e ravvicinata, con quelle persone che la penna di Peter Morgan, come un moderno e laico Giotto del rinascimento Windsor (in analogia col pittoricismo studiato da Kate e William a St. Andrews), si sforza di dipingere in tratti umanamente realistici. Figure tridimensionali a tutto tondo che allaccino una particolare «connessione emotiva con lo spettatore».

Su questo versante, scomparsa l’abbacinante aura accentratrice della figura bigger than life di Diana, apporta preziosa linfa l’origin (love) story dei giovani studenti innamorati William e Kate. Che trova i giusti volti (perfetta la timida alchimia e gli sformati look anni ’90 dei bellissimi Ed McVey e Meg Bellamy) e gli opportuni mezzi toni per rilanciare l’epopea monarchica riattualizzandola nella dimensione appartata – molto acerba e ancora poco idilliaca – di un morbido e litigioso boy meets girl, che sa rendere attrattivo il royal brand per un pubblico più giovane e allargato (dentro e fuori i confini di Netflix). Con quella necessaria sfilata di mood vintage, irresistibile coolness da teen drama e garbato glamour collegiale.

Il fil rouge più robusto di questa final season – giocoforza una summa artistico-esistenziale dell’intero arco di serie-, si snoda dunque nella costante oscillazione tra i temi della memoria familiare e dell’eredità monarchica, nel gioco di scacchi tra i predecessori e i discendenti. Tra il ripiegamento nel vissuto, nella sicurezza dei posti delle fragole dimenticati e dei legami smarriti, e i confusi slanci di rinnovamento nella indebolita precarietà dell’avvenire dinastico. In un continuo e compatto doppio movimento tra flashback e flashforward, in egual misura oniricamente veritieri e autenticamente immaginari. La memoria non più intesa quale genetico e infrangibile patrimonio di sangue blu da trasmettere, conservare e perpetrare immutato ai posteri, ma come malinconico e flebile ricordo che – nella struggente consapevolezza dell’approssimarsi del trapasso di un’era – si attarda nella contemplazione intima di un passato di felicità e innocenza irrecuperabili, per provare a indirizzare il futuro. Abbondano perciò gli antichi filmati di famiglia (reale) che i personaggi in solitudine fanno a più riprese scorrere sui rulli del proiettore domestico, con un groppo in gola di rimpianti e rimorsi (Elizabeth rimira i giochi d’infanzia e i giorni dell’Incoronazione, parendo quasi dissolversi sovrapposta al telo su cui le immagini trascolorano).

L’ottavo episodio (Ritz), magnifico, è in toto una personale e condivisa madeleine narrativa a flashback alternati e intermittenti, che serba il segreto ricordo della gaia spensieratezza e dell’entusiasmo temerario di una nottata di festa trascorsa all’hotel Ritz – teatro londinese di un’altra fuga, dopo quella parigina di Diana – dalle sorelle adolescenti Elizabeth e Margaret (le ottime Viola Prettejohn e Beau Gadsdon), durante le celebrazioni del Victory in Europe Day (8 maggio 1945): con le due scatenate a ritmo di jive e baci rubati in una sfrenata atmosfera da sotterraneo speakeasy, che fa da fugace anticamera dell’età dell’innocenza e della dolce irresponsabilità di Lillibeth, presto interrotta dalla chiamata all’irreprensibile severità della missione istituzionale. È anche l’occasione dell’ultimo abbraccio a un personaggio sfacciatamente gaudente ma profondamente complesso e sofferto come l’ormai inferma (ma sempre indomita) principessa Margaret di Lesley Manville. La passeggiata delle due giovani al rientro all’alba verso Buckingham Palace, sul Mall deserto in una limpida atmosfera da fiaba irreale, è l’immagine del sogno spezzato di due ardite Cenerentole prematuramente obbligate al disincanto.

Torna poi il quid fantasmatico già visto all’opera con la revenant Diana, nel doppio confronto interiore di Elisabetta col discordante ventaglio psicanalitico delle varie sé abitate nel corso delle stagioni. In quella che è anche una breve genealogia visuale dell’evoluzione attoriale del ruolo, le omologhe Regine del passato risalgono sul trono dell’inconscio di Elizabeth per scavare nella scissione aperta dal suo irrisolto dualismo, e illuminarne la catarsi. La volitiva e risoluta Elizabeth nel fiore degli anni, Claire Foy, riemerge come monito del Super-io istituzionale, che richiama a permanenza, stabilità e continuità della Corona, incarnazione della perfetta e compiuta eternità del ruolo che ha messo da parte e in ombra per sempre la libera spontaneità della persona («Se cercassi Elisabetta Windsor non la troveresti. La seppellisti di stessa, anni fa»). La più matura, provata e disillusa Olivia Colman è invece lo spettro impietoso di un ineludibile memento mori, che certifica lo sfinimento esistenziale e invita all’accoglienza serena dell’ipotesi abdicazione (in mezzo a una storyline in cui, peraltro, si dà pieno risalto, non senza toni affettuosi e autoironici, alle premature operazioni per le esequie della sovrana).

Senza troppo spoilerare, un plauso va in ultimo a un finalissimo (di episodio – il decimo -, di annata e di serie) che non tradisce le aspettative, e suggella nel miglior modo il corposo arco narrativo fin qui sviluppato. Congedo elegiaco, sontuoso e solenne ma ancora una volta intimamente soggettivo e misurato, con la toccante suggestione di una possibile, visionaria preveggenza sensoriale di Elisabetta, che procede solitaria scrivendo da sola il capitolo finale della sua Storia. Camminando sui propri passi verso quel destino di insostituibile presenza e iconica longevità che abbiamo imparato a conoscere. Sembrerà una chiusa formale, ma la ribadiamo con rinnovata emozione: God Save The Crown.

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Daniele Badella,
Redattore.