A NEW (OLD) QUEEN
Dio salvi la Regina… dal rischio di ritrovarsi d’un tratto obsoleta, irrilevante, old, expensive, out the touch: sono questi gli epiteti poco lusinghieri che, all’avvio della nuova stagione di The Crown (su Netflix dal 9 novembre), la discussa, risoluta e perseverante Queen Elizabeth II (Imelda Staunton) si vede affibbiare da alcuni quotidiani e tabloid inglesi non ancora sul piede di guerra (dichiarata), ma decisamente meno simpatetici e affezionati che mai alla monarchia britannica.
In un nuovo assetto storico e geopolitico – ricco di profondi mutamenti sociali – che si profila per il Regno Unito all’imbocco dei decisivi anni ’90. Lungo un arco temporale che procede dall’eredità post-thatcheriana del premier John Major (il Jonny Lee Miller di Trainspotting) all’effervescente entusiasmo della New Britain di Tony Blair (Bertie Carvel). Mentre sull’atlante mondiale, frattanto, è crollata l’Unione Sovietica, e la Regina può ricevere a Buckingham Palace il primo leader eletto della neodemocrazia russa, un Boris Eltsin (Anatoly Kotenev) che indulge in bisbocce e non lesina sgarbi alla Corona.
La serie ideata e scritta da Peter Morgan (che firma tutti e dieci gli episodi) riprende il filo degli eventi interrotti sullo sguardo sospeso e smarrito della giovane Lady D di Emma Corrin, dolce bestiolina ferita e preda designata della family dinner al castello di Balmoral, simposio di veleni e gelosie che chiudeva la bellissima quarta stagione con un aspro sapore di equilibrio precario e finta pacificazione tra i reali, dei quali ritrova ora tutti i sottaciuti conflitti incrociati, pronti ad esplodere rovinosamente in quella che è considerata una delle parentesi più critiche per la royal family.
Morgan setta le coordinate fin dal primo episodio. Come coppie parallele adagiate a distanza sulla stessa linea di galleggiamento e navigazione a vista, in una cullante deriva ovattata prima di un naufragio che sembra avere le ore contate, la Regina e il Principe Filippo veleggiano sulla fregata reale tra incombenze della Corona e momenti di relax, mentre Carlo e Diana provano a godersi, almeno a beneficio dei fotografi, una seconda luna di miele estiva a bordo di uno yacht ormeggiato nel golfo di Napoli, nell’inerzia di un rapporto tanto fiabesco e idilliaco esteriormente quanto irrimediabilmente deteriorato nelle stanze private.
Anche l’incipit, un cinegiornale in bianco e nero che documenta il pubblico discorso di Elisabetta – in versione ringiovanita, nel cameo di Claire Foy – per il varo inaugurale del panfilo Britannia nei cantieri scozzesi, innesta immediatamente nel racconto la metafora navale come architrave per riflettere sull’asse portante di questa quinta stagione: la resistenza e la (liceità della) sopravvivenza della monarchia dentro la mondanità secolarizzata del mondo moderno, che appare sempre più distante del potere sbiadito, superfluo e immateriale della Corona. Così, Il check-up medico dell’attempata Elisabetta, segnata dagli acciacchi, è apparentato alla revisione dello sferragliante Britannia (l’amata seconda casa di Lillibeth) che versa in condizioni malandate: urge per entrambi una pronta manutenzione, una ridefinizione critica su obiettivi e destinazione del viaggio, una completa rimessa a nuovo che scongiuri l’incubo dell’accantonamento e della sostituzione.
SCHERMI ELISABETTIANI
La decadenza elisabettiana si riflette anche nello schermo opacizzato del suo televisore antidiluviano: un vecchio arnese in cui la sovrana si rispecchia come retaggio di un’epoca passata che ha visto giorni migliori (“Anche i televisori sono metafore, in questo posto”, dice apertamente). Sintonizzato sul canale unico (la BBC, la vecchia zia buona atta ad informare ed educare, secondo i precetti dell’anziano presidente Marmaduke “Dukey” Hussey) che si espande nel multiverso dei palinsesti di intrattenimento satellitari: la pervasività capillare e dispersiva della modernità, ingovernabile dal (tele)comando reale, che insidia la quieta armonia, l’isolazionismo e il monoteismo mediatico della Regina.
Un discorso metafilmico sulla rappresentazione dei reali nel circuito delle immagini della società di massa che Peter Morgan porta avanti dalle stagioni precedenti: nel quinto episodio della prima stagione (Smoke and Mirrors), con l’epocale incoronazione in video (1952) della giovanissima Elisabetta, evento trasmesso per la prima volta in diretta televisiva in tutto il mondo. E nel quarto episodio della terza stagione (Bubbikins), con la troupe di operatori in salotto e lo special documentario su Casa Windsor, per mostrare i royals ai telespettatori in qualità di semplice e noiosa famiglia ultra-privilegiata.
Un’altra delle figure chiave maggiormente sviluppate è quella dell’outsider (già introdotta nel colloquio privato tra Diana e Filippo nel finale della quarta stagione) che lotta per emergere e non farsi schiacciare dentro le rigide caste del sistema britannico. Un fil rouge narrativo articolato su più personaggi. Mohamed Al-Fayed (Salim Dau) – con il figlio Dodi (Khalid Abdalla), l’ultimo compagno di Diana -, che vede gli inglesi come vere e proprie divinità dell’Olimpo, in una irresistibile scalata imprenditoriale per conquistare prestigio e savoir vivre squisitamente british (il terzo episodio a lui dedicato, Mou Mou, è una lucida riflessione politica sullo spirito dell’imperialismo britannico, che irretisce e colonizza sudditi in ogni parte del mondo con la frenesia del capitalismo rampante e del dominio classista). L’affermato cardiochirurgo Hasnat Khan (Humayun Saeed), il titubante love interest di Diana (talmente assorbito dalla posizione lavorativa da non concedersi il lusso di una vita sociale, tolta una breve sortita al cinema per Apollo 13). Il giornalista di origini pakistane (come Khan) Martin Bashir (Prasanna Puwanarajah), che nei suoi maneggi eticamente scorretti per catturare Diana non esita a ricamare sul suo vissuto di straniero additato e guardato con sospetto dall’establishment per il suo successo professionale.
Senza dimenticare l’anticonformismo amabilmente disadattato della Principessa Margaret (la straordinaria Lesley Manville): il quarto episodio dà ampio spazio alla malinconica storyline dell’inatteso ritorno del suo antico amore, mancato perché negatole da Elisabetta (“in quanto Regina, non in quanto sorella”): il maggiore Peter Townsend, nell’interpretazione sofferta e crepuscolare dell’ex agente al servizio di Sua Maestà Timothy Dalton.
REGINA DI CUORE, CORONA DI SPINE
Tra così tante pressioni esterne, resta protagonista al centro del proscenio la Elisabetta II della new entry Imelda Staunton: più fragile, addolcita nei lineamenti e nelle espressioni, più accessibile e vulnerabile (ormai è un’accogliente nonna protettiva per il nipote William) rispetto all’impenetrabile maschera sfingesca di Olivia Colman. La bella immagine di Elisabetta anziana che incrocia idealmente lo sguardo con quello della sua speculare metà giovanile, come in un vis-à-vis cinto da uno specchio temporale, rimanda l’idea di un profilo memoriale più specificamente umano, legato all’intimità nascosta e privata del sé, quella di una perduta giovinezza di spirito o di un candore infantile ritrovato nella tarda età. La regina come persona, non più (solo) carica pomposa, ruolo inalienabile, simbolo trasfigurato nella Corona.
Un approccio diverso dall’incipit che, all’inizio della terza stagione, proclamava l’ingresso nel ruolo e la nomina ufficiale di Olivia Colman, con la posa austera della regina sovraimpressa al suo profilo incollato nel francobollo reale, solenne sigillo istituzionale che timbrava il volto di Elisabetta nell’eterna effigie tipografica dell’icona.
Ciò che ora Elizabeth perde in rigida intransigenza (pur restando alterno barometro e guida morale della Nazione e del sistema Windsor), acquista in inediti slanci di empatia. Apre alla permeabilità di sentimenti finalmente ammissibili ed esternati, confessando di fronte ai sudditi il suo annus horribilis, le sue spine nel fianco, le pietre dello scandalo: le imbarazzanti intercettazioni del Camilla gate e la conseguente, burrascosa e scorrettissima guerra dei Galles tra Charles e Diana, che tra l’attenzione ossessiva e martellante dei media di tutto il mondo giungono precipitosamente a una separazione che farà storia.
A VERY ENGLISH SCANDAL
L’investigazione storica ed emotiva di Peter Morgan, al contempo minuziosamente documentata e affabulatrice, segue la scia delle annate precedenti: riempire i vuoti di rappresentazione lasciati scoperti dalla pubblica liturgia simbolica, dai protocolli della narrazione ufficiale e dall’aneddotica storicizzata della monarchia, con inserti di fiction rivelatori di relazioni che, nell’intreccio del family drama, si staccano dalla freddezza accademica e affettata dei ruoli istituzionali.
Ma rispetto alla magniloquenza narrativa e alla verosimile architettura romanzesca del grande affresco delle stagioni passate, senza scadere nel sensazionalismo da rotocalco pruriginoso di molti docudrama, The Crown 5 sembra qui adottare il respiro più corto e spezzettato del reportage cronachistico, del feuilleton di lusso, del legal thriller d’autore, comunque condotto con ammirevole e coinvolgente scansione di ritmo, tensioni e dinamiche corali.
Non è per forza un difetto, più un compromesso forse inevitabile, visti i mutati tempi di una (post)modernità sempre più vicina a noi, in cui tutto si atomizza e si frammenta, in una vetrina di immediata riconoscibilità della ribollente materia trattata, che rimanda l’eco di un isterico clamore mediatico mai davvero estinto. Un impressionante surplus inflazionato di discorsi culturali, immagini giornalistiche e cinematografiche sedimentate nello spettatore – modello royal watcher – da cui è difficile scartare: impossibile, ad esempio, per la libera ma in fondo filologica ricostruzione di Morgan, seguire il sentiero di un incubo allucinato e deformante come la fiaba nera di Spencer (2021) di Pablo Larraín. Né si può ancora indulgere fuori tempo massimo nella curiosità pettegola della soap-opera all’acqua di rose come La vera storia di Lady D (Diana: Her True Story, 1993), miniserie tv che uscì nell’imminenza dei primi scandali, tratta proprio dal libro biografico di Andrew Morton di cui The Crown narra la gestazione, con i nastri delle confessioni di una Diana preda di paranoie e velate minacce.
COLPI BASSI, ALTEZZE REALI
Morgan ci prova comunque a offrire inediti angoli di ripresa della celebre querelle. Muovendosi in parallelo – spesso in montaggio alternato – tra la grande suggestione metaforica (la congiura televisiva di Diana nel rovesciare la monarchia è traslata nella Guy Fawkes night (il 5 novembre), il fallito attentato eversivo al Parlamento britannico del 1605) e un processo di smitizzazione quasi burocratico, che dispone Carlo e Diana, nell’episodio Couple 31, come semplici pedine di una comune e noiosa pratica notarile. Indistinti e ammassati tra le tante e anonime coppie in lista d’attesa che avanzano le reciproche rivendicazioni, chiedendo il divorzio nella formale routine del tribunale.
L’eterea fiaba che sembrava dover sbocciare nel reame dei Windsor all’inizio della quarta stagione, con la scintilla tra la ninfa Diana e il Principe (ranocchio) Carlo, si spegne ora nella più pallida ordinarietà domestica, in un ultimo, risentito confronto davanti alle uova strapazzate in cucina, che rimette in tavola solo mesti rimpianti e un astio incancellabile.
La Lady D della splendida e scorata Elizabeth Debicki è inevitabilmente il fulcro d’interesse primario della stagione, l’ago della bilancia: l’abbagliante e minuta reincarnazione della fragile eppure combattiva Diana anni ’90 (lodevole la mimesi sull’inconfondibile vocalità sussurrata e vellutata della Principessa). Figura mitica e – lo dice lei stessa – ibrida “creatura mitologica” vestita di golfini e revenge dress. Un corpo-archetipo a sé, intrappolato in una no woman’s land di limbo esistenziale (“né sposata, né single, né una reale, né una del popolo”). Assediata e isolata nella sua solitudine macerante. Un cigno nero smarrito, distrutto, commosso e indomabile davanti all’opera di Čajkovskij a teatro.
Dominic West è un Principe Carlo insolitamente ambizioso e determinato, distinguibile nelle affettazioni gestuali, nell’aristocratico distacco, nei tic della postura, ma fin troppo carismatico e affascinante – non ce ne voglia Sua Maestà il (nuovo) Re – rispetto al corrispettivo reale. Ormai nell’attesa, a un tempo fervente e rassegnata, di un futuro già scritto. In cui ha però il merito di intravedere, oltre l’opportunità egoistica, la necessità vitale di un restyling riformista dell’apparato monarchico, impantanato in una severità vittoriana ormai vetusta (la Queen Victoria Syndrome che si rimprovera alla Regina). Tra trame familiari e una dialettica politica di ricerca del consenso nei colloqui privati con John Major e Tony Blair.
Merita un’ultima menzione il Principe Filippo di Jonathan Pryce (interprete di statura immensa, meno celebrato di quel che meriterebbe). Visibilmente provato dall’età nel fisico, ma non nell’animo inquieto e ardimentoso, sempre in cerca di nuove sfide, tenta di riprendere le redini della sua terza età, sacrificata nelle retrovie di Palazzo, scoprendosi appassionato di corse su vecchie carrozze: anche queste, come la nave elisabettiana, metaforici relitti malconci e accatastati, senza più una funzione nel mondo moderno, riportati a nuovo splendore e decoro per il gusto di riassaporare antiche glorie.
La sua storyline si sofferma su un recupero delle radici affettive e identitarie, nella costituzione di un piccolo clan di compagni di avventure (in risalto, la particolare complicità con l’amica (?) di famiglia Penny Knatchbull (Natascha McElhone), che infastidisce la Regina). Nel sesto episodio, Ipatiev House, la trasferta russa con Elisabetta fa emergere sottili e antiche tensioni tra i due, intelligentemente incrociate a un crudo discorso politico che rievoca un background storico di sanguinarie diatribe reali (il rifiuto della nonna di Elisabetta, la Regina Mary, moglie di Giorgio V, di offrire un canale di fuga dai moti rivoluzionari ai parenti Romanov, abbandonati a se stessi e barbaramente trucidati dai bolscevichi).
LONG LIVE OUR NOBLE SERIES
Nel complesso, The Crown 5 non perde il suo smalto prestigioso e il suo nobile lignaggio seriale, continuando a brillare come uno dei migliori prodotti del panorama contemporaneo, nella scrittura attenta, composita e calibrata, in un parco attori di livello costantemente altissimo, vera forza motrice e trainante che non ha mai perso rigore icastico e attrazione magnetica negli avvicendamenti del recasting, e anche qui si conferma un valore aggiunto di presenza scenica, dentro una tessitura drammaturgica che profonde classe e minuzia della ricostruzione ad ogni inquadratura. E ci restituisce, almeno sul piccolo schermo, la presenza affettuosa e resistente di una royal grandma e di un pezzo di Storia novecentesca che nel frattempo abbiamo perduto.
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