James Wan. Un nome che, quando pronunciato, è capace di far battere forte il cuore di milioni di fan del cinema horror, memore soprattutto di aver creato alcune delle saghe horror più conosciute al mondo. Debuttando con forse il suo lavoro più famoso, Saw-L’enigmista, nel 2004 ha dato vita ad una serie di film che, tra alcuni alti ma soprattutto tanti bassi, continua a tornare in sala con nuovi capitoli ancora oggi (vedi Spiral-L’eredità di Saw diretto da Darren Lynn Bousman in uscita nelle sale a Giugno); passando per Dead Silence (2007), un pregevolissimo horror meno conosciuto ma non per questo meno valido; ha poi diretto nel 2010 il film Insidious, divenuto oggi un cult per una nicchia di appassionati nonostante il buon successo ottenuto all’epoca, dando origine anche qui ad una saga proseguita con altri tre capitoli (di cui lui è però regista soltanto dei primi due) ed uno ancora in dirittura d’arrivo.
E’ però nel 2013 che si presenta al mondo nel ruolo di regista del film che molti ritengono il suo capolavoro: The Conjuring. Basandosi sulla storia dei demonologi Ed e Lorraine Warren, Wan era riuscito infatti a creare un horror che fosse al tempo stesso commerciale ed adatto al grande pubblico ma capace anche di toccare i tasti giusti, confezionando (ancora una volta) il fenomeno del momento. Il prodotto fu talmente un successo da portare la produzione a creare un vero e proprio Universo Condiviso, popolato da diverse storie che, in un modo o in un altro, finiscono sempre per collegarsi tra di loro. Nascono così Annabelle con le sue tre iterazioni (John R. Leonetti, 2014; David S. Sandberg, 2017; Gary Dauberman, 2019), The Nun (Corin Hardy, 2018), Ll Llorona (Michael Canvas, 2019) ed un seguito diretto del “capostipite” sempre con James Wan alla regia chiamato The Conjuring – Il caso Enfield uscito nel 2016.
Esclusi il secondo The Conjuring ed il secondo Annabelle (chiamato Annabelle Creation), purtroppo si tratta di prodotti scialbi se non addirittura pessimi. Dopo 5 anni dall’ottimo secondo capitolo, i coniugi Warren sono tornati protagonisti per un’altra iterazione, questa volta non più diretti da Wan, bensì dal Michael Canvas già regista del pessimo Lla Lorona e questo già fece storcere il naso a molti e le aspettative per il film si abbassarono drasticamente, con qualcuno che inneggiava al disastro ancora prima dell’uscita dei trailer. Purtroppo, queste persone avevano ragione.
UN (FORSE TROPPO RIPIDO) CAMBIO DI ROTTA
Abbandonata la struttura della “casa infestata” presentata nei primi due capitoli, il film decide di cominciare in “medias res”, nel bel mezzo dell’azione. Gli Warren sono infatti già nel bel mezzo di un esorcismo (a differenza degli altri due film in cui bisognava attendere oltre la metà del film), il cui protagonista è un bambino di 8 anni. Le possibilità di salvarlo sono molto basse, perciò il cognato Arne Johnson (Ruairi O’Connor) decide di prendere il demone che infesta il bambino dentro di sé. Ciò porta il ragazzo a commettere un omicidio per il quale viene arrestato ma, una volta arrivato in tribunale, afferma, con l’appoggio degli Warren, che la causa delle sue azioni è dovuta ad una possessione demoniaca.
Da qui il film procederà come un horror poliziesco, nel quale i due coniugi “interpretano” il ruolo dei detective ed il loro scopo è trovare le prove della possessione e poterle presentare in tribunale. Sulla carta, l’idea è interessantissima: non solo si allontana dalla struttura dei precedenti capitoli (evitando di essere quindi stucchevole come “more of the same”), ma apre le porte ad un tipo di narrazione particolare e funzionale che permetterebbe anche di discutere tematiche anche scottanti, in primis il discorso sul poter utilizzare la “scusa” della possessione in tribunale. Peccato che tutto questo funga da mero pretesto per far cominciare gli eventi del film, riducendo all’osso tutte le possibili discussioni che se ne potrebbero ricavare e portando i protagonisti di questa vicenda ad avere soltanto una piccolissima parte, troppo ridotta perché lo spettatore possa provare anche un minimo di empatia nei loro confronti.
Un esempio su come gestire questa struttura narrativa è L’esorcismo di Emily Rose (Scott Derrickson, 2005). Anche lui tratto da una storia vera, condivide con questo terzo capitolo l’inserimento di un processo in tribunale, nel quale però si verifica la veridicità di un esorcismo e quindi l’effettiva possessione della ragazza, piuttosto che la presenza di alcune malattie. Nonostante la piccola differenza di argomento, è un esempio di come riuscire a coniugare un argomento giuridico con un elemento sovrannaturale alternandolo a veri e propri momenti horror.
I DETECTIVE WARREN
Passando alla parte poliziesca, solitamente si utilizza un modus operandi per coniugarla con l’elemento horror: questa infatti è spesso più un pretesto per poter portare i protagonisti verso i momenti spaventosi ed inquietanti che sono l’effettivo cuore del prodotto. Coraggiosamente, questo prodotto tenta di fare il contrario, ma finisce per fallire. Il far partire il tutto dalla necessità di provare la soprannaturalità dell’evento (dove spesso è invece il contrario) è una premessa interessante, ma il film decide di ribaltare tutta la struttura sopracitata, inserendo quindi le scene horror non come punto d’arrivo delle indagini ma come pretesto per portare i protagonisti in alcuni luoghi o verso alcune scelte. Questo però conduce il film verso una monotonia estrema, con la sequenza “arrivo in un luogo – scena horror” riproposta più e più volte per quasi tutta la durata del film, rendendo tutte le sequenze che dovrebbero fare dello spavento il loro punto di forza estremamente monotone e banali (complice anche un eccessivo e continuo uso di jumpscare classici).
Se l’horror risulta così marginale (o banale) è forse per dare più spazio all’elemento investigativo della storia. Peccato che anche qui il tutto sia di una estrema banalità. Il “villain” del film non è più il demone in sé, bensì un satanista in carne ed ossa che l’ha evocato e da qui il prodotto aveva “carta bianca” vista la novità nell’universo condiviso di questa scelta. In realtà il tutto si risolve in maniera abbastanza semplice e prevedibile, senza riuscire mai a coinvolgere pienamente lo spettatore, vista anche la mediocre gestione dei vari personaggi che compongono questa storyline e la pochezza nello sviluppo del satanista e delle sue motivazioni.
Due esempi di ottima costruzione di questa struttura vengono ancora dal sopracitato Scott Derrickson, con i suoi Sinister (2012) e Liberaci dal male (2014), entrambi caratterizzati da una struttura narrativa che mescola un’indagine (nel primo caso giornalistica e nel secondo poliziesca) all’elemento horror in maniera riuscitissima.
Nota positiva risultano invece i due protagonisti. Patrick Wilson e Vera Farmiga sono perfettamente calati nei loro ruoli ed hanno tra di loro una chimica veramente eccezionale. Portando avanti ciò che già era stato mostrato nei precedenti, i due personaggi riescono ancora a raccontare qualcosa di loro che non sapevamo, rimanendo comunque interessanti e permettendo allo spettatore di entrare sempre di più in sintonia con loro pellicola dopo pellicola.
IL VERO PROBLEMA
Come detto sopra, il prodotto fallisce pienamente nell’essere un film spaventoso o perlomeno inquietante e questo è da imputare principalmente ad un fattore: il cambio di regia. Per quanto Wan non sia un maestro alla pari di altri registi, è innegabile che la mano per creare ottimi film ce l’ha senz’altro. Niente di troppo peculiare, ma è quel movimento di macchina o quella scelta stilistica particolare che riesce a rendere memorabili ed emozionati le varie sequenze presenti nei primi due capitoli, che qui invece mancano completamente. Canvas non è un cattivo regista, ma la sua esposizione risulta estremamente basilare e statica, portando le varie sequenze a perdere tutto l’entusiasmo e la carica che avrebbero potuto presentare se gestiti da una mano più esperta.
Ne sono un altro esempio i jumpscare. Tra Insidious e i due The Conjuring, è innegabile che a Wan questo espediente piaccia. Questi però risultano inseriti in maniera intelligente all’interno della narrazione, portando quindi lo spettatore a spaventarsi spesso, vista anche la varietà di situazioni che il regista è capace di creare. Canvas invece inserisce il jumpscare nella modalità più classica possibile, portando anche lo spettatore meno abituato ad intuire dopo poche sequenze la struttura che c’è dietro la loro comparsa.
Ottimo il montaggio, che riesce a creare delle bellissime sequenze oniriche, confuse il giusto e belle visivamente, mentre la fotografia si attesta sulla mediocrità. Esclusi i due protagonisti sopra citati, i personaggi secondari contano una buona interpretazione da parte degli attori, tutti particolarmente in parte.
CONCLUSIONI
Nonostante l’ottimo soggetto e la formidabile coppia Wilson-Farmiga a trainare il tutto, The Conjuring Per ordine del diavolo soccombe sotto il peso dei predecessori. Una regia modesta, ma non a livello di James Wan, una sceneggiatura con molti problemi ed una gestione dei momenti horror monotona e stantia abbassano di molto la qualità complessiva del prodotto. Non si tratta certo di un film terribile, ma è sicuramente un peccato vedere un universo nato da ottimi prodotti scadere sempre più verso la mediocrità.
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