Premiato all’ultima Mostra del cinema di Venezia col Leone d’Argento alla regia, The Brutalist di Brady Corbet, scritto da Corbet stesso e Mona Fastvold, ha fatto parlare di sé appena presentato. Difficile, d’altronde, non parlare di un film di tre ore e mezza interamente girato su pellicola 70mm, in un formato, il VistaVision, nato negli anni ‘50, per un totale di 26 bobine di girato pesanti all’incirca 130 kg, con un intervallo di 15 minuti incluso, e una struttura in quattro parti completa di prologo ed epilogo. La dimensione epica di The Brutalist è già insita nella sua mole: la storia narrata nel film non fa altro che sottolinearla.
La vicenda si dipana tra il 1947 e il 1980, e narra le vicende di un architetto ungherese immaginario, László Tóth (Adrien Brody). Ebreo sopravvissuto alla Shoah, László si trasferisce negli Stati Uniti con la speranza di potersi riunire, un giorno, con la moglie Erzsébet (Felicity Jones) e la nipote Zsófia, rimaste in patria. La fortuna sembra arrivare quando il talento di László viene notato da un ricco industriale, Harrison Van Buren (Guy Pearce). Questi, da bravo mecenate, concede all’uomo tutto quello che gli è necessario fintantoché lavora a suo servizio ad un’impresa a dir poco monumentale: un centro, intitolato alla madre, comprendente ben quattro edifici all’interno di uno.
Il discorso attorno al film si è riacceso recentemente, ma non per commentarne l’afflato epico. Piuttosto, in corrispondenza della stagione dei premi sono stati sollevati dei dubbi sulle prove attoriali di Brody e Jones, dopo che è stato rivelato che le loro battute in ungherese sarebbero state modificate attraverso l’AI per suonare più vicine alla parlata di un madrelingua. A difesa dei suoi attori, Corbet ha spiegato come i due avessero lavorato per mesi assieme ad una dialect coach e come la tecnologia utilizzata, Respeecher, fosse stata applicata solo ad alcune lettere ed affiancata da un processo di editing del suono manuale, per cercare proprio di mantenere intatto il nocciolo emotivo delle performance.
Avendo potuto vedere il film prima dell’uscita italiana ufficiale, grazie alla Cineteca di Bologna, mi è possibile commentare che rispetto alla totalità del film e dei suoi dialoghi le battute in ungherese sono veramente poche. Da una parte, l’attenzione rivolta da Corbet ad una riuscita accurata del suo lavoro può essere ammirevole, specialmente in un momento in cui un’altra performance, quella in spagnolo di Selena Gomez in Emilia Pérez, ha provocato una valanga di critiche da parte dei madrelingua per la sua inesattezza. Dall’altra, la decisione di usare l’AI in un momento storico in cui questo è (giustamente) oggetto di tante discussioni legate ai lavori creativi, per di più per affinare poco materiale all’interno di un’opera monstrum come questa, sembra solo un modo di darsi la zappa sui piedi e gettare ombra sul lavoro attoriale di Brody e Jones.
Terra dei liberi?
The Brutalist si apre con un’immagine che parla da sé: quella della Statua della Libertà, vista da una nave carica di persone alla ricerca di una nuova vita, come il nostro László. Un’immagine iconica, già presente in altri film come sineddoche dei flussi migratori verso l’America, come ne Il Padrino – Parte Due o nel nostrano La leggenda del pianista sull’oceano. Corbet, però, gioca con quest’immagine in una maniera che ci lascia intendere quale sia la traiettoria del film: la capovolge, presentandoci una Statua della Libertà a testa in giù.
Nella sua prima parte, The Brutalist si presenta come una storia di affermazione personale classica: László sembra essere il self-made man che, grazie al suo talento e all’aiuto di un mecenate generoso, riesce a farsi strada in una terra colma di possibilità e a raggiungere la realizzazione personale, la fama e la gloria. Parlando di narratologia, ci appare come l’eroe che segue pedissequamente tutte le tappe del viaggio teorizzato da Vogler nel modello narrativo seguito da altri “eroi americani” cinematografici come Forrest Gump.
Ma quell’immagine iniziale resta e ci accompagna durante la seconda parte del film, nettamente divisa dalla prima da un intervallo diegetico e richiamata quando in una parentesi ambientata in Italia uno dei personaggi cita il corpo esposto a Milano di Mussolini. Quella a cui stiamo assistendo è sì la storia di un “sogno americano”, ma una versione distorta, capovolta, consapevole della falsità del mito su cui si fonda. Il sogno americano esiste, ma non è certo appannaggio di individui “piccoli” come László o del suo amico nero Gordon che, nonostate l’impegno o il talento, non potranno mai essere self-made men perché “diversi”. A loro spetta solo il compito di rendere più ricchi i già ricchi attraverso il proprio sfruttamento, uno sfruttamento che nel caso di László raggiunge estreme conseguenze e diviene anche corporeo.
Il tema di The Brutalist è espresso e ripetuto con chiarezza, forse anche un eccesso di chiarezza (si veda il momento in cui il cattivo capitalista interpretato da Pearce ripete, con un’enfasi teatrale, “Yes, I can!”). D’altronde, è giusto “accusare” di troppo zelo chiarificatore un film che, già a partire dal formato scelto (il VistaVision è nato negli anni ‘50), si rifà chiaramente a un modello di cinema enfatico, epico, quasi da blockbuster?
Viene però da chiedersi se il film riesca del tutto ad uscire dagli schemi narrativi che chiaramente sta criticando. I personaggi femminili, specialmente Erzsébet, assumono un ruolo fondamentale nella narrazione. Sono lei e Zsófia, alla fine della storia, a risultare “vincitrici”, molto più di László: alla fine del film, il punto di arrivo del nostro presunto protagonista è lo stesso di partenza della moglie e della nipote. Il finale, inoltre, ci fornisce una chiave di lettura inedita sul lavoro svolto da László per il suo committente. Basta questo, tuttavia, a dare una chiave di lettura inedita anche all’intero lavoro a cui abbiamo assistito finora, quello di Corbet?
Conclusioni
The Brutalist è un film dalle dimensioni certamente epiche, nato da premesse ambiziose quasi quanto quelle espresse nella storia stessa dal protagonista. Il risultato è un film la cui grammatica rispetta pedissequamente il modello che vorrebbe “capovolgere”, tanto che, arrivati alla fine, la domanda sorge spontanea: quello a cui abbiamo assistito è davvero un atto di sovversione? Ai posteri l’ardua sentenza.
Certamente, posta la domanda, non si può comunque negare a Corbet il merito di aver creato un film titanico, con per altro un budget alquanto ridotto (solo 10 milioni di dollari).

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