Realizzare un film tratto da un racconto di Stephen King è una vera e propria scommessa. Alcune volte si cerca l’aderenza quasi totale al materiale di partenza (come per Il Miglio Verde di Frank Darabont, in cui a cambiare sono piccoli dettagli come il peso di un personaggio o l’anno di ambientazione), mentre in altre occasioni ci si allontana di parecchio (con il caso più eclatante rappresentato dallo Shining di Stanley Kubrick), anche se spesso gli adattamenti vengono in realtà divisi in due semplici categorie: riusciti e non. Sfortunatamente, la seconda categoria è molto più corposa rispetto alla prima tanto che, quando venne annunciata l’intenzione di adattare Il Baubau – ritenuto da molti come una delle storie migliori mai scritte da King – affidandolo nelle mani di Rob Savage, all’unanimità si era pronti all’ennesimo adattamento da dimenticare. Qualcosa però stavolta sembra essere andato per il verso giusto.
Paure primordiali…
La paura del buio – e di ciò che si può annidare in esso – è la base dell’horror tutto, dai miti passando per i romanzi fino ai film ed ai videogiochi; un elemento fondante della società, con annesse storie per bambini con mostri e pericoli necessari come “spauracchio” per tenere in casa i bambini durante la notte o impedir loro di allontanarsi troppo. Non sorprende quindi che quando la piccola Sawyer (Vivien Lyra Blair) e la sorella Sadie (Sophie Tatcher), dopo la morte della madre, affermano di essere perseguitate da una misteriosa figura che si nasconde nell’oscurità sotto il letto o all’interno degli armadi, nessuno creda loro, liquidando il fenomeno come una manifestazione del trauma. Proprio su questo elemento la pellicola si sofferma fortemente, con diverse sedute psicanalitiche a cui partecipano le due ragazze ed a cui il padre (Chris Messina), psicologo a sua volta, si rifiuta invece di partecipare, chiudendosi in sé stesso per non affrontare il dolore. Il contrasto tra realtà ed immaginazione si fa quindi sempre più labile anche grazie ad un villain che, in forte continuità con l’universo kinghiano, riesce a simulare le voci delle persone reali e sfrutta i vari traumi e debolezze dei personaggi per torturare le proprie vittime.
Se nell’It di Andy Muschietti il mostro mutava la propria forma per sfruttare le paure dei bambini del Losers Club, Rob Savage decide di donare al suo Boogeyman un aspetto semplice, scarno, fortemente bestiale ma grottesco allo stesso tempo e nascondendolo sapientemente – anche per coprire alcuni limiti della computer grafica – in una continua zona d’ombra scarsamente illuminata, dalla quale si possono notare a sprazzi soltanto gli occhi bianchi o una delle lunghe zampe. Seguendo questa decisione, ciò che ci si ritrova a guardare sono sequenze molto lunghe in cui la tensione la fa da padrone e che – per la felicità dei fan del genere un po’ più accaniti – sfrutta pochissimo, almeno fino agli ultimi venti minuti, i jumpscare.
… classici cliché
Se da un lato questa decisione aiuta a sollevare il film dalla banalità e dalla non riuscita, al tempo stesso non riesce mai a donargli guizzi particolari capaci di rimanere impressi nello spettatore. Proprio la decisione di mostrare così poco il mostro si dimostra come una lama a doppio taglio, eliminando già in partenza la possibilità di donare iconicità al boogeyman; in maniera simile funziona anche la sceneggiatura che pone interessanti guizzi di riflessioni sull’elaborazione del lutto e dei traumi in una durata complessiva che riesce a non stancare – soprattutto in un mare di pellicole “necessariamente” lunghe – ma che riesce a sviluppare solo in parte, dando la giusta importanza alle protagoniste ma dimenticandosi quasi completamente del padre, per non parlare dei personaggi ancor più secondari.
Sul fronte tecnico, Savage – alla sua seconda regia dopo l’interessante Host – esegue un lavoro discreto, capace di inquietare e mettere in scena le vicende senza guizzi o manierismi di sorta, aiutato soprattutto da una ottima fotografia capace di sfruttare ottimamente i giochi di luci ed ombre. In ultima stanza vale la pena elogiare il lavoro svolto dalle due attrici principali, capaci di reggere quasi esclusivamente la pellicola sulle proprie spalle ed in particolare la piccola Vivien Lyra Blair – conosciuta dai più per la serie tv Kenobi in cui interpretava la piccola Leia Organa – che dimostra di avere tutte le doti necessarie per sfondare nell’ambiente. Dispiace invece per Chris Messina ma soprattutto per David Dastmalchian, poco sfruttati nel loro essere rilegati a ruoli eccesivamente minori.
Conclusioni
Con The Boogeyman Rob Savage riesce dove molti altri hanno invece fallito: realizzare un buon adattamento, capace di creare tensione e di rendere giustizia al nome che porta. Nonostante però un’ottima interpretazione da parte delle protagoniste ed un lato tecnico comunque di buona fattura capace di creare la giusta tensione, la pellicola non cerca mai di dimostrarsi capace di qualcosa di più rimanendo sempre attorno ad un canovaccio classico che funziona senza sorprendere: non si è infatti davanti alla rivoluzione del genere ma ad un classico film dell’orrore.
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