L’America rappresentata da Laszlo Benedek in The Wild One (1953), quella conservatrice del secondo dopoguerra, prendeva la forma di una piccola cittadina californiana dove il tempo sembrava essersi fermato nel vecchio west. Un’America spaventata dal cambiamento, ostile verso le nuove generazioni in cerca di un qualcosa di diverso rispetto ai soliti valori tradizionali. Johnny Strabler (Marlon Brando) rappresentava il senso comune di alienazione e bisogno di ribellarsi provato da molti giovani dell’epoca. Tra questi figurava John Davis, un camionista di McCook, Illinois, che, ispirandosi proprio al personaggio interpretato da Marlon Brando, fondò il suo club di motociclisti: gli Outlaw MC. Il club si espanse in fretta e divenne presto uno dei più grandi degli Stati Uniti. Il fotografo americano Danny Lyon iniziò a seguire gli Outlaws a metà degli anni ‘60, pubblicando nel 1967 il fotolibro The Bikeriders.
A distanza di quasi sessant’anni dall’opera di Lyon, Jeff Nichols scrive e dirige (prendendosi molte libertà) un adattamento dell’omonimo fotolibro. Il film racconta l’ascesa dei Vandals MC e dei loro membri. Johnny (Tom Hardy), camionista e padre di famiglia, fonda i Vandals dopo la visione di The Wild One, rimanendo profondamente affascinato dal personaggio di Brando e da ciò che esso rappresenta. Benny (Austin Butler) è un vero ribelle, un uomo d’azione impassibile e di poche parole, che ambisce alla libertà più totale e simboleggia tutto ciò che Johnny vorrebbe essere. Consapevole di non essere il leader giusto per il futuro del club da lui stesso creato, Johnny vede in Benny la personificazione degli ideali che lo hanno ispirato a fondare i Vandals, la giusta guida per un gruppo sempre più violento a causa di nuove leve che non riesce più a tenere a bada. Ma il loro è un rapporto di stima reciproca: Johnny è per Benny quasi una figura paterna, colui che gli ha dato la possibilità di esprimersi per ciò che è nel profondo, che lo ha (forse) per la prima volta fatto sentire parte di qualcosa.
A ritrovarsi catapultata in questo mondo è Kathy (Jodie Comer), moglie di Benny e vera e propria narratrice del film. Attraverso una serie di interviste condotte dal personaggio di Danny (Mike Faist), esprime un punto di vista esterno, che offre una prospettiva umana e personale riguardo la vita ribelle dei Vandals, costituito anch’essa da regole e, di conseguenza, mai realmente libera.
Ma la storia dei Vandals è la storia di tutti i club di motociclisti fondati a cavallo tra gli anni ’60 e ‘70, nati come luoghi di ritrovo per persone che un posto non lo avevano e in un’epoca in cui le illusorie sirene del sogno americano mietevano vittime sempre più numerose. E i bikers, equivalenti moderni dei cowboys, non facevano altro che sfidare il rigore di quell’America capitalista. Ma l’inizio della guerra in Vietnam, con il conseguente rientro dei primi veterani, ha dato alla luce una nuova America, violenta ed egoista. Le regole non cambiano, ma sono reinterpretate dai giovani appena rientrati dalla guerra e la cui prospettiva del mondo e della vita è ormai del tutto mutata irreversibilmente.
È la fine dell’epoca d’oro dei bikers, un tempo in cui il peggio che poteva capitargli era di finire investiti da una macchina che usciva da un parcheggio. Johnny vorrebbe Benny come suo successore, considerandolo come l’unico in grado di preservare i valori reali del club. Tuttavia, i suoi ideali gli impongono di non avere responsabilità alcuna, di non attaccarsi a niente e a nessuno.
La libertà, nelle sue molteplici interpretazioni, anima profondamente i personaggi e si riflette magistralmente nell’estetica della fotografia di Adam Stone e nel sonoro. Jeff Nichols dimostra nuovamente una grande abilità, soprattutto per quanto riguarda la direzione degli attori. La fragilità intrinseca del personaggio di Johnny è qui resa alla perfezione nella scelta del timbro vocale di Tom Hardy, stridulo e graffiato, in netto contrasto con l’immagine di forza e invulnerabilità che il personaggio dovrebbe incarnare. Ciò si contrappone efficacemente ai toni più bassi e misurati impiegati da Austin Butler.
Ciò che invece, a mio avviso, non riesce a convincere del film di Nichols è la tendenza a relegare sullo sfondo le forze motrici che animano molti dei personaggi, relegando così elementi cruciali della narrazione a una posizione di secondaria importanza. Inoltre, la gestione del cambio generazionale all’interno del club appare, a sua volta, carente di incisività. Molte delle nuove leve sono violente perché devono esserlo ai fini della narrazione, togliendo profondità a un elemento cruciale quale il passaggio da “club di vandali in motocicletta” a organizzazione criminale organizzata.
Gli anni rappresentati nel film, dal 1965 al 1973, sebbene ricchi di significato storico e culturale, non riescono a imprimere un senso di gravità e rilevanza alla narrazione. Il passare del tempo, che a un film che dipana il suo racconto nell’arco di otto anni dovrebbe conferire una dimensione di evoluzione e trasformazione, risulta così, in alcuni punti, trattato superficialmente. In definitiva, il film sembra, a mio avviso, mancare l’opportunità di sfruttare appieno il potenziale narrativo offerto dal contesto storico in cui è ambientato.
In conclusione, The Bikeriders di Jeff Nichols affronta con maestria temi di identità, ribellione e cambiamento sociale, sfruttando una fotografia e un immaginario che riflettono profondamente l’estetica e il clima dell’epoca. Tuttavia, il relegare in secondo piano le forze motrici che guidano i personaggi verso una ribellione contro l’”American Way of Life” tende a ridurre l’impatto emotivo e narrativo delle vicende rappresentate.

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