Nel 2004 debuttava in America su NBC il reality show The Apprentice, in cui aspiranti imprenditori si sfidavano in una serie di prove legate al mondo degli affari, sotto lo sguardo vigile e giudicante di Donald Trump, magnate dell’imprenditoria immobiliare. Dieci anni dopo, mentre gli Stati Uniti si preparano ad affrontare un nuovo e cruciale capitolo della loro storia politica con le imminenti elezioni presidenziali, Ali Abbasi (Border, Holy Spider) presenta alla 77ª edizione del Festival di Cannes un audace ritratto dello stesso Trump, ora ex-Presidente, nuovamente candidato alla Casa Bianca.
Il film, che abbraccia un arco temporale che si estende dal 1973 – anno segnato dallo scandalo Watergate sotto la presidenza Nixon – fino al 1986, in piena era Reagan, racconta l’ascesa del giovane e ambizioso Donald Trump (Sebastian Stan) nel mondo dell’edilizia newyorkese. Al centro della narrazione il suo incontro con Roy Cohn (Jeremy Strong), l’avvocato senza scrupoli che diventerà il suo mentore. La rappresentazione del legame con Cohn, così come il matrimonio con Ivana (Maria Bakalova), disegna il percorso di una personalità sempre più accecata dal potere, incapace di coltivare legami umani autentici e pronta a voltare le spalle a chiunque si frapponga tra lui e il successo.
The Apprentice di Abbasi può essere visto come una rivisitazione moderna del mito di Frankenstein, con Trump nel ruolo di un esperimento andato fuori controllo, un mostro che non solo sfugge dalle mani del suo creatore, ma finisce per rivoltarglisi contro. Roy Cohn/dottor Frankenstein, vede un giovane se stesso in Trump e lo guida verso un cammino di spietatezza e disumanizzazione, introducendolo ai meccanismi più oscuri del potere con le sue tre regole d’oro: “Attaccare, negare sempre tutto, non accettare mai la sconfitta”. Cohn incarna la spietatezza in ogni gesto, e il suo volto impassibile e giudicante rivela una disumanità ormai radicata. Non sembra provare alcun sentimento, se non, forse, per se stesso, i propri traguardi e i suoi beni materiali. Il giovane Donald, cresciuto all’ombra di un padre incontentabile, che trascorre la vita a sminuire i suoi figli e a esaltare i propri successi, fa tesoro di ogni singola parola di Cohn. Così, da allievo devoto, Trump si trasforma in una macchina da guerra, guidata non solo dalla ricerca del successo e della ricchezza, ma anche – forse inconsciamente – dal desiderio di superare il padre, tanto nella vita professionale quanto in quella personale. Trump non vende la sua anima, la consegna spontaneamente in nome degli affari.
La trasformazione di Donald Trump, sia interiore che fisica, è palpabile: la voce si fa più bassa, i capelli iniziano a diradarsi, e il suo corpo diventa sempre più massiccio. Le sue argomentazioni, spesso vacillanti, sono imposte con forza nonostante le ripetute smentite (il dialogo con il medico ne è un perfetto esempio). Con il passare del tempo, Trump si avvicina sempre più alla figura caricaturale che tutti conosciamo. Eppure, ieri come oggi, il suo magnetismo rimane intatto, capace di catturare l’attenzione del pubblico e di piegarlo al proprio volere.
La trasformazione del personaggio in un’entità disumanizzata avviene però in maniera troppo affrettata, risultando così meno incisiva e priva della profondità necessaria a renderla davvero efficace. Le frequenti prese in giro rivolte a Trump, spesso ridondanti, tendono a spingere il film verso una dimensione quasi demenziale, trasformando ciò che avrebbe potuto essere una denuncia tagliente in una parodia eccessiva.
Nonostante questa inclinazione alla caricatura, Sebastian Stan riesce nell’impresa di evitare una semplice imitazione, offrendo una straordinaria interpretazione. Con precisione e profondità, restituisce le movenze e le peculiarità dell’ex-Presidente, infondendo al personaggio una complessità che va oltre la superficie. Da segnalare anche le magnifiche performance di Jeremy Strong e Maria Bakalova, che arricchiscono il film con interpretazioni di grande intensità, conferendo spessore a una narrazione che rischierebbe, altrimenti, di perdersi nel grottesco.
In conclusione, The Apprentice di Ali Abbasi è un’opera ambiziosa e provocatoria che, pur con alcuni limiti, riesce a tracciare un ritratto inquietante e paradossale di una delle figure più controverse della nostra epoca. Il film ci ricorda come, nella corsa al potere, l’umanità sia spesso il prezzo più alto da pagare.
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