Questi giorni sono coincisi con la fine di alcuni degli show più amati degli ultimi anni come Succession, Barry, The Marvelous Mrs. Maisel, e tra questi anche Ted Lasso, che ci ha salutati per sempre -forse, rimane infatti spazio per alcune speculazioni su uno spinoff- con un episodio extra large da oltre settanta minuti. In una stagione prolissa e poco a fuoco, che per molti aspetti è sembrata un passo falso rispetto ai perfetti equilibri tra sitcom e prestige drama a cui la punta di diamante di Apple TV+ aveva abituato il pubblico, è rimasto comunque spazio per un finale soddisfacente.
Al suo debutto, in piena pandemia, la gentilezza gratuita del personaggio ideato e interpretato da Jason Sudeikis – nato come protagonista di una serie di spot della NBC Sports – aveva rappresentato il giusto antidoto narrativo a mesi in cui sugli schermi serviva l’esatto opposto di un antieroe. Se durante la prima stagione il suo essere un pesce fuor d’acqua, un pò per i suoi modi di fare totalmente opposti al cinico mondo del calcio professionistico e un pò per la sua incompetenza tecnica, aveva costituito il principale motore narrativo e comico della storia, dalla seconda il tono era cambiato. Infatti, una volta superata la fase del Lasso contro tutti, il cambiamento umano e sportivo della squadra aveva lasciato spazio ad un’esplorazione più intima del personaggio, mettendone in luce la complessità personale ed umana.
Dal primo episodio della terza stagione il coach è scisso in due, bloccato dall’impossibilità di tenere insieme i due mondi che lo abitano: quello da cui viene e quello in cui ha avuto la possibilità di ricominciare. Restare con l’AFC Richmond per completare il suo percorso insieme a quella che è diventata una famiglia allargata e colmare la distanza con il figlio, a cui manca sempre più, sono due possibilità che a questo punto del suo percorso non possono più convivere.
La crisi che abita Ted non è poi molto diversa da quella sperimentata dalla serie stessa. A causa della sempre crescente durata degli episodi, appesantiti da sottotrame superflue, la serie non è stata in grado di trovare una sintesi efficace tra la sua originaria natura di sitcom e l’aspirazione – quasi compiuta nella seconda stagione – a diventare prestige television. Perdendo di vista alcuni degli elementi che avevano reso l’ottimismo mai smielato di Ted Lasso un fenomeno sin dall’inizio, la sceneggiatura è involuta in una non-direzione più caotica, perdendosi spesso in inutili deviazioni. Fortunatamente, nonostante un finale eccessivamente prolungato e indulgente, è riuscito a mantenere un filo conduttore e ha congedato l’allenatore Lasso con un addio toccante.
Sono tante le cose che succedono, troppe le strade intraprese senza un reale approfondimento, soprattutto perché la maggior parte degli sviluppi di trama realmente significativi e funzionali alla narrazione avvengono lontano dallo schermo per presentarsi allo spettatore solo una volta compiuti. Ad essere sacrificate in favore di nuove sottotrame di dubbia utilità narrativa, come l’avventura tra Keeley e la sua capa narcisistica Jack, sono elementi strutturali della serie, in primo luogo la trasformazione di Nate, il cui addio al West Ham non è stato neanche mostrato sullo schermo.
Ciò che è sempre riuscito perfettamente a Ted Lasso era proprio aprire discussioni per affrontarle con onestà e sensibilità restando fuori dal terreno scivoloso delle lezioncine. Purtroppo il rischio che si corre quando vengono aperte riflessioni importanti una dietro l’altra, è il caso della diffusione del sex tape di Keeley e dell’attacco a sfondo razziale al ristorante di Sam, è che non venga dato sufficiente spazio a nessuna, banalizzandone la risoluzione.
La virata della serie verso il genere drama avviato già dalla prima stagione viene quindi confermata ma senza la profondità che aveva contraddistinto la precedente. Rimane comunque spazio per la risata e l’esplorazione di personaggi secondari che in efficaci, seppur brevi, segmenti contribuiscono a dare vitalità e coesione al cast. In questo senso l’episodio bottiglia ambientato ad Amsterdam è uno dei migliori con la dichiarazione d’amore di Leslie nei confronti di Chet Baker e del jazz.
Ted Lasso ha sempre vissuto la contraddizione di essere una serie sul mondo del calcio che non parlava di calcio e se questa scelta ha avuto senso fino a questo momento ne ha avuto altrettanto la decisione di concedergli finalmente uno spazio maggiore. L’ascesa del Richmond dopo la promozione in Premier League e la rincorsa verso il titolo è emozionante ed esilarante da seguire grazie anche all’ingresso a sorpresa del proto-Ibrahimović Zava, facendo sperare fino all’ultimo in una parabola miracolosa simile a quella del Leicester. La tensione cresce fino alla grande sfida finale che li vede scontrarsi in campo con il West Ham ma soprattutto con il suo proprietario e perfido ex marito di Rebecca, Rupert, amplificando quasi le emozioni di una partita reale.
Per quanto avrei preferito dire addio a questi personaggi sulle note di una stagione trionfante questo gran finale non è una sconfitta, perché anche scivolando su note da commedia romantica – quel Ed Sheeran finale non riesco proprio a digerirlo- ci ricorda il motivo per cui abbiamo amato passare del tempo con questi personaggi, condividendone le conquiste come la creazione di una squadra femminile per Keeley e Rebecca e l’inizio di un percorso di terapia per Roy che accoglie così in pieno l’eredità lasciata da Ted. Ed è proprio su quello che possiamo accogliere dagli altri che si è sempre basato Ted Lasso e il suo addio ne è lo sviluppo più sincero. Le relazioni cambiano e accogliere questo cambiamento è l’atto per cui fondamentale è credere come abbiamo sempre letto su quel cartello.
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