Nella mia scorsa recensione, dedicata al film Full Time – Al cento per cento, mi rallegravo del fatto che il regista Éric Gravel fosse riuscito a non cadere nella trappola di un film eccessivamente lungo, commisurando perfettamente la durata al soggetto. Apro così il mio commento del film Sundown, regia di Michel Franco, protagonisti Tim Roth e Charlotte Gainsbourg, presentato in concorso alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia, perché ritengo che il suo più grande difetto sia proprio questo: aver voluto per forza essere un lungometraggio.
STORIA DI UN UOMO IN CRISI
I due fratelli Neil e Alice Bennet (Roth e Gainsbourg), gestori di una multinazionale dell’industria della carne, stanno trascorrendo una vacanza ultra lusso ad Acapulco, assieme ai figli di Alice. Neil, evidentemente infelice della situazione, decide di approfittare di un imprevisto che allontana la sua famiglia dal Messico per prendersi alcuni giorni in solitaria in una sistemazione molto più modesta, assieme a una ragazza del posto (Iazua Larios).
La prima parte del film, che vede il protagonista abbandonare i propri cari e la propria situazione agiata, è probabilmente la più riuscita e la più raffinata. Franco costruisce la sezione iniziale, dedicata alla vacanza in famiglia, attorno a immagini di bellezza e ricchezza, potenziate dalla fotografia. L’azzurro del mare e delle piscine è brillante, il sole batte, il cibo è bello a vedersi così come i panorami messicani. In questa prima sezione noi spettatori ci troviamo in una posizione quasi voyeuristica, osservatori di un fasto che però è tanto bello da osservare quanto freddo: i dialoghi tra i protagonisti sono ridotti al minimo. Neil in qualche modo si trova spesso “escluso” dalle interazioni familiari, ripreso separatamente, di spalle o, ancora, mostrato da solo in questi ampi spazi.
Quando l’incidente scatenante inclina la situazione, spingendo il protagonista lontano dalla sua famiglia, abbiamo subito una totale virata, con l’assunzione di soluzioni sempre più squallide da parte sua: birra al posto del margarita, un misero hotel al posto del resort lussuoso, una spiaggia affollata di turisti al posto dello yacht. La fotografia e la regia, tuttavia, mantengono lo stesso rigore, le persone pur nella loro semplicità sono accoglienti ed espansive, molto più di quanto siano stati i famigliari di Neil. Tuttavia, sullo sfondo c’è lo spettro della violenza, che erompe su schermo in una scena improvvisa in cui il mare e la spiaggia, il rifugio dove il protagonista trascorre le sue giornate, si tingono di rosso, un colore finora apparso poco e che quindi colpisce maggiormente.
Di Neil, a questo punto, non sappiamo praticamente nulla: né le motivazioni che lo hanno spinto ad abbandonare la famiglia in un momento topico, né quale sia esattamente la professione che l’ha reso tanto ricco. Franco lavora per sottrazione, lasciandoci soli con le azioni presenti del personaggio. E tanto ci basta: le immagini sono sufficienti a comunicarci che quello che stiamo vedendo è un uomo facoltoso che sta attraversando una profonda crisi personale, la nostra immaginazione può riempire i vuoti con la backstory che più ci aggrada, dal momento che il mistero non è il fulcro della storia e che anzi, forse è meglio che sia così.
O meglio: così sarebbe stato se la seconda parte non avesse scoperto le carte.
TANTO FUMO, POCO ARROSTO
Se nella sua prima metà Sundown è un film relativamente godibile, a tratti un po’ pesante da digerire a causa dei lunghi silenzi ma con una buona fotografia a sopperire e una vicenda già vista ma resa originale da alcune soluzioni visive, la parentesi che segue imposta benissimo le aspettative per ciò che verrà: è inaspettata e non serve a nulla. Poco dopo la chiusura di una vicenda riguardante Alice, infatti, lo status quo viene ristabilito come se nulla fosse, portandoci inevitabilmente a domandarci in che cosa sono stati investiti gli ultimi minuti: nonostante siano successi eventi anche abbastanza radicali, Neil non cambia (una frase che riassume perfettamente l’evoluzione generale del personaggio). Anche il successivo incontro coi nipoti riserva un singolo, isolato momento di sincera emozione per poi chiudersi, come d’altronde era già stato con Alice, con la firma di un contratto. Una critica di quanto il denaro sia più importante dell’amore nella società che Neil si sta apprestando ad abbandonare? Difficile a dirsi, visto che in questi casi l’atteggiamento freddo sembra essere reciproco.
La parentesi centrale, inoltre, inserisce un elemento visivo collegato alla professione del protagonista, ovvero quello dei maiali. Se la prima parte era interessante proprio perché mancava di riferimenti chiari su chi fosse il personaggio, la seconda è in parte ostacolata da questa carenza di dettagli: non abbiamo avuto maniera di entrare in contatto con la dimensione lavorativa di Neil dall’inizio, quindi averne uno scorcio solo a metà film risulta quasi un pensiero dell’ultimo minuto, più che una ricorrenza tematica.
A migliorare il risultato finale non aiuta l’interpretazione di Tim Roth che, forse a causa del copione scarno di dialoghi, forse per la natura misteriosa del personaggio, per tutto il film sembra recitare col freno a mano. Vero anche che Neil, un uomo che abbandona la propria famiglia senza rimorsi, è poco emotivamente coinvolto nella situazione che lo vede protagonista. Il finale, che ci svela il motivo per cui abbia avuto questo cambio così repentino, aiuta a comprendere in parte le motivazioni dell’uomo, e a vedere oltre la sua maschera di placida indifferenza. Tuttavia, è un lavoro che il pubblico stesso deve svolgere, dal momento che Roth offre pochi guizzi di emozione in tutto il film, anche in questo frangente, con un finale che taglia corto senza offrirci un momento che possa aiutarci a entrare in reale connessione col personaggio.
L’intento era quello? Sundown è mai stato pensato per farci “connettere” con Neil o dobbiamo essere dei meri osservatori di una realtà sociale come in una novella verista? Possibile, ma se così fosse il risultato non è del tutto riuscito perché, diversamente dai brani del filone letterario appena citato, il commento sociale del film non è abbastanza pervasivo.
Con una parte centrale priva di conseguenze nella narrazione complessiva, un paio di forzature di troppo, un finale eccessivamente frettoloso e una durata che sfiora appena l’ora e venti, Sundown sembra essere un mediometraggio che è stato allungato per poter raggiungere lo status di lungo e avere i vantaggi che da ciò derivano. La fotografia e la regia, sempre ottime e sovente produttrici di immagini molto evocative, complici anche i panorami meravigliosi di Acapulco, non bastano a sopperire a una storia che declina vertiginosamente da un certo punto in poi.
In poche parole: se il problema di molti film è che non hanno abbastanza tempo per potersi sviluppare, quello di Sundown è che ne ha avuto troppo.
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