Il clamore e l’aura divistica che da sempre circolano attorno alla figura e all’icona di Lady Diana Spencer (1961 – 1997) non smettono di affascinare il pubblico e di catturare l’interesse del panorama audiovisivo contemporaneo. Dopo la luminosa interpretazione della sfortunata People’s Princess offerta dalla giovane rivelazione Emma Corrin nella quarta stagione di The Crown (nel prosieguo della serie di Peter Morgan, il ruolo verrà preso in carico da Elizabeth Debicki), anche un autore affermato come il cileno Pablo Larraín, in Jackie (2016) già alle prese con una dolente parabola femminile al centro dei vischiosi reticoli dei grandi potentati politico-istituzionali, si cimenta con Spencer – presentato in concorso alla 78ª Mostra del Cinema di Venezia – in un complesso e visionario ritratto dell’immortale Lady D (Kristen Stewart, candidata alla miglior attrice ai prossimi Academy Awards) da un’angolazione particolare. Un’opera che riesce ad avvicinare l’intima essenza di un personaggio dell’immaginario collettivo troppo spesso relegato alla sovraesposizione di santino mediatico da copertina (al pari forse di Grace Kelly, Diana sarebbe stata la donna più fotografata al mondo). “A fable based on a true story”: questa la dichiarazione posta in esergo. Il racconto si concentra su un un re-imagining, una ricostruzione immaginaria – in chiave appunto fiabesca e favolistica – di un soggiorno della Principessa Diana nella residenza reale di Sandringham House, durante le festività natalizie del 1991 (dalla vigilia al Boxing Day), quando la donna, trentenne, da ormai dieci anni è moglie dell’erede al trono Carlo, nonché madre dei piccoli William e Harry. Periodo durante il quale, soffocata dalle regole inflessibili e dall’asfissiante disciplina imposta dalla casata, sempre più alienata dal contatto coi parenti trincerati in un marmoreo distacco anaffettivo, viene portata sull’orlo del collasso psicofisico, prendendo definitivamente coscienza di una felicità impossibile da raggiungere, se non tentando la fuga da un destino – come sappiamo – purtroppo tragicamente segnato…

“Come potrei perdermi in un posto dove giocavo?”, si chiede Lady D quando, scesa dalla sua Porsche verde scuro che procede incerta nella campagna del Norfolk, cerca la strada per Sandringham, a pochi passi da Park House, la tenuta che le ha dato i natali. Un senso di smarrimento e raggelante estraneità la pervade proprio nei luoghi familiari che dovrebbero ricondurla al calore protettivo del nido domestico, come prima spia premonitrice di un disagio che inscrive immediatamente la traiettoria esistenziale della donna – e il mood angoscioso del film – nell’ottica delle deviazioni del perturbante (nel senso propriamente freudiano dell’unheimliche, che dirotta sulle vie dell’angoscia e dell’alienazione quanto di più conosciuto e addomesticato).

Mentre Diana, spaesata, si attarda a chiedere indicazioni in una tavola calda – tra lo sbigottimento degli avventori locali –, una fila di mezzi militari trasporta verso Sandringham il copioso carico di vettovaglie destinate agli imminenti banchetti reali, con l’ordinata marcia di cadetti e inservienti delle cucine che sfilano gli uni affianco agli altri davanti all’ingresso del palazzo, come un reggimento di truppe al cambio della guardia. Siamo appena all’inizio di Spencer e regia e montaggio di Larraín già ne suggeriscono la dicotomia fondamentale: l’eterno immobilismo, la processione rigida e ingessata del Potere incarnato dai Reali, secondo ordine immodificabile e ferreo protocollo, e il movimento disorientato, libero, sfuggente e anarchico di Diana. L’inquadramento simmetrico nell’algida e immutabile fissità delle perfette geometrie, e la loro radicale incrinatura formale attraverso la rottura delle pose ufficiali da parte di un’estranea che gioca fuori dalle caselle della scacchiera reale. Se gli altri membri della Royal Family, in primis Elisabetta, giungono alle soglie di palazzo scortati da lente, solenni e cerimoniali carrellate di (austero) profilo, l’irruzione anomala di Diana è mostrata con una vertiginosa ripresa dall’alto sugli immensi cortili di Sandringham ridotti a un geometrico modellino in scala, con l’effetto di un labirintico plastico in cui la vettura rimpicciolita della donna si avvicina alla meta come il maggiolino di Jack Torrance verso l’Overlook Hotel di Shining (1980): anche Diana, come il custode del film di Kubrick, sta per essere risucchiata – schiacciata come una mosca nella tela del ragno, o, dice lei stessa, sul vetrino del microscopio – nel vortice dell’incubo e di pericolose fluttuazioni della coscienza.

Man mano che ci si addentra nella profonda intimità delle lacerazioni e dei rimossi dell’universo personale di Diana, tra ricordi infantili, sogni e desideri, Spencer diventa infatti un’allegorica fiaba nera su un corpo sacrificale vittima di un potere assoluto, misterico e insondabile. Che cerca di fuggire al di là del bosco nella notte, verso la casa d’infanzia come fonte di regressione salvifica, culla di una purezza dimenticata nel tempo, ma anche cripta foriera di ombre oscure. Un corpo rapito in un’inquietante ghost story di apparizioni fantasmatiche e venature horror in cui tutti parlano sussurrando a bassa voce, ammantando l’atmosfera di suggestioni oniriche. Dove il ritiro a Sandringham più che una riunione di famiglia si trasforma presto in una spiritica seduta di sonnambulismo, un consesso di spettri radunato all’ora di cena da servi sussiegosi (ancora Shining), e che nel silenzio più penetrante si concedono alla vista sotto i pastosi bagliori della luce delle candele: straordinario l’apporto della DOP Claire Mathon (Ritratto della giovane in fiamme), che con esasperanti grandangoli e un uso raffinato del 16 mm richiama il lavoro pittorico e plastico di Barry Lyndon (1975). In un ritratto avvolgente, al tempo stesso austero ed esangue, di un’umanità di manichini imbellettati sottratti allo scorrere del tempo, su cui si staglia la mobilità nervosa, disarmonica e non conforme di Diana. In un impianto scenico in cui dominano la distorsione percettiva e gli spiazzanti scarti dal reale, l’interpretazione di Kristen Stewart rifugge dal calco mimetico da museo delle cere, dalla perfetta replica somatica e fisiognomica di Diana (non è ciò che conta). Puntando a restituirne la fragile vulnerabilità e il coraggio ribelle con le espressioni tremolanti e stirate, le pose sghembe e scomposte di una figura minuta e reclinata (un certo modo di piegare la testa sul collo, un lieve incurvamento delle spalle), esposta alle intemperie umane e sociali della sua corte ostile. Lavorando soprattutto sui toni bassi della voce e sull’accento (più che mai indispensabile la visione in versione originale). 

La sceneggiatura di Steven Knight, a suo agio con gli assoli attoriali e le solitudini accerchiate nello spazio fin da Locke (2013), non insegue una canonica progressione drammatica, ma si struttura sulla ripetizione circolare di confronti a due pervasi di tensione impalpabile – criptici, assorti, appartati – tra Diana e le presenze di palazzo (lo chef, il paggio della Regina, la complice e innamorata guardarobiera Maggie, il duro faccia a faccia tra Carlo e Diana, separati da un tavolo da biliardo rosso che recupera quello di Eyes Wide Shut, 1999), aumentando in tal modo la natura riflessiva, contemplativa e confessionale del film.

La messa in scena di Larraín, accompagnata dalle tortuose dissonanze stridenti di archi e percussioni del magnifico score di Johnny Greenwood, istituisce così un regime ipnotico e allucinatorio che annulla l’oggettività razionale del racconto. Inghiottendo la figura di Diana in un’interiorizzazione di spazi e tempi narrativi che si fa sempre più emotivamente precaria, instabile e convulsa. “Qui non c’è il futuro, c’è solo il presente che è uguale al passato”, spiega Diana ai figli in camera da letto, certificando una volta di più come quella cappa di immobilismo respirata nei saloni arrivi a provocare la compressione e l’annullamento delle coordinate temporali. Il dramma traumatico e la paranoia solipsistica della protagonista – che vaga inquieta tra i sinistri corridoi pedinata dalla steadicam – confluiscono senza soluzione di continuità nel claustrofobico kammerspiel psicologico alla Polanski, nella variazione d’autore sul tema dell’haunted house, nella rielaborazione contemporanea e rovesciata (come già Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson, altra storia di magioni severe e fantasmi interiori) del filone woman in distress, sul modello hitchcockiano di Rebecca (1940) o quello cukoriano di Angoscia (1944), con le sue donne ostaggio di prigioni dorate, tra paure reali o presunte che grondano fitte risonanze storiche e psicanalitiche (la gogna di Anna Bolena rispecchiata nella persecuzione di Diana, che ne reincarna lo spirito come una revenant); o ancora nel jeu du massacre bunueliano che scardina l’ipocrisia delle aristocrazie attavolate, e nel musical coreografico come conquista di libertà (la scena che raccorda con panoramiche avvolgenti e la danza cinetica della cinepresa, come puro movimento in corsa, il passato di Diana). 

Facendo i conti con se stessa e la propria legacy, la Diana di Larraín prova ad immaginare come i posteri scriveranno di lei: “Se sei un royal, più tempo passa, meno parole usano per descriverti”. Meglio affidarsi alla potenza rivelatrice delle immagini cinematografiche, che una volta di più la consegnano al mito: alla favola della ninfa innocente e della principessa sperduta nel bosco che non volle diventare Regina. 

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Daniele Badella, Redattore