GUARDIANI DELLA GALASSIA WARNER

Salta subito all’occhio, in Space Jam: New Legends (Space Jam: A New Legacy) di Malcolm D. Lee (segnalatosi con la parodia blaxploitation di Undercover Brother (2002), principalmente noto per essere il cugino del celebre Spike), un’invadente e reiterata spinta (auto)promozionale. Già a pochi minuti dall’inizio, con la ripresa che parte dalla skyline di Burbank, la grande città-studio, all’alba: con lo stesso slancio di una discesa sulle montagne russe di una giostra a tema, scatta un pianosequenza che, aggirando l’iconica water tower scudata Warner Bros., si fionda giù a rotto di collo tra i corridoi degli studios, fin dentro il rutilante cuore informatico dell’azienda: il fantomatico Serververse, il ricco universo virtuale custode dell’immaginario della galassia WB, costellato di tutti i suoi slot narrativi, personaggi e pianeti-franchise (Harry Potter, il DC Universe, Mad Max, Game of Thrones e tanti altri). 

Gigantesco software in cui vive confinato il machiavellico Al-G Rhythm, intelligenza artificiale (o è forse un bug?) a cui presta volto e corpo un infido Don Cheadle. Che cerca gloria – o forse un posto da creative CEO della compagnia? – catturando la star NBA LeBron James all’interno del suo mondo, con la complicità dello scontento Dom (Cedric Joe): il figlio adolescente dell’atleta, in cerca di rivalsa e riconoscimento paterno delle frustrate ambizioni di genietto del game design. In una strabiliante sfida virtuale all’ultimo canestro che, dietro la jam session sintetica e multidimensionale tra corpi ibridi e Looney Tunes sotto nuove forme, propone una trita ricomposizione di buoni sentimenti familisti.  

«ABBIAMO BISOGNO DI NUOVE ATTRAZIONI»

Un simpatico e nemmeno troppo spaesato LeBron James, dunque, metacinematograficamente convertito in figurina digitale, da far (s)fruttare al pari delle altre properties della Casa-madre, ennesima costola prigioniera del marchio, l’ultimo brand in licenza esclusiva di uno storytelling mediale all’apparenza inesauribile. Basta, una dichiarazione così trasparente e spudorata sugli scopi della missione, per fare del film un interessante giocattolone di intrattenimento dotato di una propria autocoscienza teorica? Bastano, le pluriassortite sequenze-remake di cult e classici Warner, filologicamente storpiati dall’arrembante anarchia vignettistica dei Looney Tunes (da Matrix , con la Nonna sospesa in aria come Carrie-Anne Moss, fino al Rick’s Bar di Casablanca, con LeBron in smoking bianco alla Bogart), per trasformarlo in un immersivo e fecondo viaggio tridimensionale dentro cataloghi e archivi dell’immaginario alla Ready Player One (2018) di Spielberg? 

Visti gli esiti, decisamente no. Non c’è un vero ripensamento critico di immagini ricontestualizzate, siamo semplicemente in presenza di un colossale spottone esteso a lungometraggio. Un accelerato grand tour nella galassia Warner Bros., che vorrebbe riflettere sui processi di character design e le pratiche selvagge di remake e crossover, ma dove tutto è svolto in maniera così pedestremente gratuita, tracimante e sfacciatamente survoltata da far smarrire gusto e senso di inside jokes e citazioni.

In cui anche il fan-quiz ingaggiato con lo spettatore, invitato a contare quanti più cameo possibili delle icone WB che affollano gli spalti (It, The Mask, il King Kong del Monsterverse, il Pinguino di Batman e i Drughi di Arancia Meccanica, ma c’è davvero di cui sbizzarrirsi), diventa niente più che un giochetto per attenuare lo sbadiglio davanti a un match di fantabasket incredibilmente privo di pathos agonistico, per di più girato con confuso e sbalestrato senso dell’azione, senza vera suspense emotiva per le sorti dei contendenti (solo in Bugs Bunny è appena accennato un discorso sul rischio obsolescenza dei personaggi digitali). 

Eppure, per altri versi, si chiarisce perfino qualcosa sullo scenario attuale della celebrity culture, prestando attenzione al pubblico assiepato insieme ai beniamini della finzione (che, in fondo, è il medesimo del film): la miriade di spettatori-follower ingurgitati tramite smartphone nel “campo di forza” virtuale. Un target generico e allargato, il solo per cui (ancora) si offra una visione, l’unica audience che resta ai tempi magri delle sale desertificate: quella catturata con lo swipe-up dentro il recinto del blockbuster (aperta parentesi: per chi fosse interessato, anche il recente saggio di Stuart Cunningham e David Craig, “Social media entertainment – Quando Hollywood incontra la Silicon Valley” (Minimum Fax), con le sue riflessioni sulla zone miste tra intrattenimento e interattività, pubblicità e contenuto, potrebbe ben spiegare in quale variegato e complesso ecosistema mediale si inserisce un oggetto come Space Jam: New Legends)

«VEDIAMO SE MI RICORDO ANCORA COME SI FA»

Il coinvolgimento nel grande match lascia tuttavia molto a desiderare. Salvando qualche numero divertente (la moltiplicazione di Willie Coyote gettato a canestro, la rap battle di Porky Pig, la Nonna alcolista che ingolla Martini nello spogliatoio), manca sulla superficie impazzita del parquet quello spirito ironicamente genuino, ingenuamente artigianale, che ai tempi fece la fortuna del curioso collage in tecnica mista di Space Jam (1996) di Joe Pytka

Pur non essendo, chi scrive, completamente al riparo da una time capsule di affettuosa nostalgia generazionale per il film del ‘96, anzi moderatamente soggetto alla sindrome millennial, formato BoJack Horseman, di chi versa lacrimucce indulgenti per tutto quanto di bello (?) e di meglio (?) prodotto nei rimpianti anni ’90, non siamo così sprovveduti da farne una questione di onestà e purezza del prodotto originale: tanto è marketing capillarmente trasversale il progetto di New Legends modellato attorno a King James, tanto lo era il primo Space Jam nel mettere su rampa di (ri)lancio internazionale, in egual misura, un fenomeno al tempo già global come Michael Air Jordan e le truppe animate dei Looney Tunes in splendente restyling (con Duffy Duck a ringraziare pubblicamente baciando il logo WB stampigliato sul suo deretano pennuto).

Ciò che non convince, a differenza del predecessore, è piuttosto la ricostruzione di un universo di gioco caotico e sovrabbondante ma freddo, che anestetizza la partecipazione di chi guarda lasciandolo in panchina. In un quintetto-base di supervillain mostruosi e geneticamente modificati che schiera nello scorrettissimo Goon Squad, insieme al giovane Dom James, il Wet-Fire di Klay Thompson e le giocatrici della WNBA Diana Taurasi e Nneka Ogwumike, il freezing time di Chronos, versione ipercinetica del Damian Lillard dei Portland Trail Blazers, scompone il tempo e ferma il cronometro quasi fosse il Quicksilver della Marvel, facendo però solo esibizione convulsa e sfiancante. Come tutti, del resto. Nel casino imperante, quasi nulla rimane della plastica poesia al ralenty e delle mosse improvvisate del primo Space Jam, col braccione gommoso – stile pupazzo tirato di Mr. Muscle – di Michael Jordan allungato in distensione, per schiacciare a canestro sul filo della sirena.

Ma del resto ben venticinque anni – e tanta CGI sotto i ponti – sono passati dal primo Space Jam. La generazione Game Boy in 2D – che scorgiamo tra le mani dello stesso LeBron bambino nel prologo – ha lasciato il campo ad esperti adolescenti pro-player che i videogiochi se li fanno da sé e a propria immagine. In un tripudio di skills e gimmick pompate a dismisura, in cui la pallacanestro praticamente scompare, e in cui tecnica e abilità sono sostitute dall’accumulo scriteriato, perfino irregolare, di bonus, balzi e pedane da platform game e gettoni di potenziamento. 

Il senso ultimo della new legacy trasmessa dal titolo originale è allora quello di un sequel-reboot che fa pesante e affannoso rebuilding sul proprio dream team immaginifico, costretto a inseguire l’estetica dominante del cinecomics ad ogni angolo del campo, finendo stremato. In cui anche i punti di forza del vecchio film con Michael Jordan, la spettacolarità cartoonesca, le impossibili giocate ad effetto che curvano le leggi della fisica e della gravità nella forma ibrida del live-action animato, si disperdono in un marasma stordente di effettistica dopata e convulsi rimbalzi da flipper videoludico, con il parquet ormai indistinguibile da un qualunque campo di battaglia bombardato di supereroi in delirio di onnipotenza. 

Time out, please. 

Questo articolo è stato scritto da:

Daniele Badella, Redattore