Chloé Leriche torna al Torino Film Festival dopo la partecipazione nel 2016, presentando il suo secondo lungometraggio nel concorso principale di questa edizione. A cavallo tra documentario e finzione, la storia narra della tragedia vissuta dalla comunità indigena  degli  Atikamekw nel 1977.

Il 26 giugno di quell’anno, un veicolo precipita in un fiume poco fuori dalla comunità Atikamekw di Manawan, nel nord del Québec. Due persone di origine non indigena sopravvivono all’incidente, ma cinque membri della comunità Atikamekw perdono la vita. La polizia conclude le indagini dichiarando che si è trattato di un incidente, ma per le famiglie delle vittime molte domande rimangono ancora senza risposta (fonte Torino Film Festival).

Se da un lato il tema del film non può che ricordare l’ultima opera di Martin Scorsese, e in questo senso Soleils Atikamekw è definibile come l’anti Killers of the Flower Moon. Non esiste epica all’interno del film della Leriche, costruito tutto sulla reazione come comunità degli Atikamekw alla tragedia avvenuta, elemento quasi completamente trascurato all’interno del film di Scorsese. Una comunità gioiosa che nel film dopo il lutto viene ritratta come composta da spettri che si aggirano nella notte, persone trasformate nei fantasmi di loro stesse dopo aver perso i propri cari. Questo elemento insieme ai segnali provenienti dall’al di là comunicati attraverso la luce del sole, aggiungono al mix tra documentario e finzione un’interessante componente di realismo magico. 

Come nel film di Scorsese il bianco abbatte e uccide, sottolineato dalla scena più riuscita del film in cui i probabili assassini attraversano un corridoio di alberi abbattuti. Una foresta massacrata, come gli Atikamekw, che fanno del loro contatto con la natura una parte essenziale della loro vita. L’acqua del lago, dove sono stati ritrovati i cadaveri, possiede una memoria e per superare il lutto è necessario immergersi nel luogo dell’accaduto, cessando di avere paura di esso.  La polizia si disinteressa totalmente al caso, bollandolo come l’ennesimo evento problematico causato dagli indigeni. 

La Leriche  è brava nel trasmettere una sensazione di inquietudine costante e di tragedia imminente nella prima parte della pellicola, messa in scena con un gusto visivo raffinato che può ricordare il cinema di Kelly Reichardt. Anche il disinteresse della polizia e la frustrazione della comunità per la mancata giustizia hanno un ruolo centrale nella narrazione. 

Il problema principale che contribuisce alla non riuscita totale del film è la mancanza di quantità di materiale  sufficiente a reggere tutti i 100 minuti dell’opera. A metà della durata complessiva la pellicola va inesorabilmente ad arenarsi in una ripetizione continua di ciò che era stato mostrato precedentemente, perdendo mordente e depotenziando il messaggio che voleva trasmettere. Una grande occasione mancata visto il tema del film e il grande numero di intuizioni visive che la regista sfodera nella prima parte dell’opera.

Luca Orusa
Luca Orusa,
Caporedattore.