Il Natale si avvicina e immaginiamo che i nostri esercenti stiano preparando interi carri di regali per il genere horror: è un gran bel momento per il genere più bistrattato e vituperato, che anche in Italia è al comando degli incassi ai botteghini grazie ai suoi paladini intitolati Longlegs (oltre il milione e mezzo di euro), The Substance (vicino a quota due milioni), Terrifier 3 (sopra i tre milioni, di cui la metà solo nell’anteprima di Halloween) per arrivare anche a Smile 2, che si attesta oltre i tre milioni d’incasso superando di gran lunga anche il primo capitolo uscito nel 2022 (quando chiuse la sua corsa attorno ai 2 milioni). Dati alla mano, l’orrore è tornato ad essere l’emozione più ricercata dagli spettatori di tutto il mondo e se è vero che il genere horror è quello che meglio capta, metabolizza, rielabora, e vomita addosso al pubblico le sue fobie, le sue insicurezze, le sue paranoie e le sue ossessioni, allora forse filosofi e sociologi hanno tantissimo materiale su cui lavorare (se la situazione geopolitica mondiale non fosse già un forte indizio). Lo stesso horror, a dir la verità, da parecchi anni ci sta dando una risposta chiara: siamo tutti traumatizzati. Il trauma horror, così chiamato convenzionalmente per la presenza di un trauma come sottotesto tematico che deve filtrare l’emergere dell’orrore, è il filone prediletto dell’horror contemporaneo: che sia il trauma generazionale del recentissimo I saw the tv glow, il lutto familiare di Midsommar – Il villaggio dei dannati, di The Babadook o di Talk To Me, quello di natura sessuale di It Follows, oppure anche quello del femminile davanti al maschile di Men o di L’uomo invisibile, i protagonisti di una grande fetta dell’horror del nuovo millennio sono costretti ad affrontare a viso aperto qualche evento che ha sconvolto le loro vite, senza (più) alcuna via di scampo.

Il trauma era alla base anche dell’opera prima del regista Parker Finn, Smile (espansione dell’omonimo cortometraggio dello stesso regista), che portava alle estreme conseguenze il trauma horror creando una maledizione trasmissibile solo attraverso l’esperienza di un evento scioccante, spesso rappresentato dalla testimonianza dei suicidi di coloro che erano stati impossessati; e Smile 2 non cambia tante carte in gioco, narrando della popstar Skye Riley (una bravissima Naomi Scott) alle prese con la difficile elaborazione della morte del fidanzato, deceduto in un incidente stradale causato dalla stessa Riley, intrappolata in una condizione psicotica aggravata dalla tossicodipendenza. Dopo un anno passato a disintossicarsi, la cantante deve iniziare il tour di ritorno in scena ma il suicidio di un amico la porterà nello stesso vortice di follia in cui era caduto l’agente Rose Cotter nel primo film: il sorriso inquietante torna a stamparsi nei volti di tutti coloro che le gravitano attorno – comprese le orde di fan – e distinguere la realtà dalla fantasia sarà sempre più difficile.

Qualcuno avrebbe detto “Put on a happy face, Skye”

Evitiamo di mettere la testa sotto alla sabbia: Smile 2 ha un canovaccio che non si discosta tanto dal suo predecessore, scegliendo anche di aprire con un incipit che crea un collegamento fra i due capitoli abbastanza forzato e mai più ripreso nel corso dei 127 minuti; c’è ancora la protagonista alle prese con un trauma, ci sono ancora i ghigni sinistri, ci sono ancora i jumpscares, così come troviamo di nuovo personaggi secondari appena abbozzati e poco approfonditi. Tuttavia, se le saghe horror anni ‘80 contano in media sette o otto capitoli (fra alti e bassi, com’è ovvio e giusto che sia) allora, forse, un’alzata di scudi generale contro Parker Finn a partire già dal secondo capitolo risulta un po’ eccessiva. Perché quello che si richiede a una (potenziale) saga è almeno un minimo di variazione rispetto allo standard originale e Smile 2 soddisfa pienamente questo requisito, non solo aggiungendo un secondo sottotesto al trauma ma anche portando su di un altro livello la gestione della regia e del sound design.

Partendo dal primo punto, va sottolineato come nell’horror degli ultimi trent’anni l’Uomo vada sempre incontro a un processo di disgregazione psicologica in cui, a causa del dissociamento fra corpo e psiche, prima inizia a isolarsi (Antichrist, The Lighthouse) e poi a svanire (Pulse, The Blair Witch Project, Skinamarink – Il risveglio del male), attuando una cesura importante rispetto al canone degli 80s. Al contrario di oggi, nell’epoca dell’edonismo e del culto del corpo quest’ultimo era sempre esposto al pubblico ludibrio per trarre godimento dalla sua capitolazione, o dal suo letterale smembramento, per dirla in altra maniera, essendo che proprio in quest’epoca nasceva il body count, il conteggio dei corpi all’interno del genere slasher. Maxxxine di Ti West, uscito pochi mesi prima del nuovo film di Parker Finn, riprende il discorso degli anni ruggenti mostrandoci le sfide a cui deve andare incontro il corpo di Mia Goth, platealmente esposto, per raggiungere le vette dello star system; ma sempre quest’anno la celebrity c’era anche in Trap di M.Night Shyamalan, dove l’assassino si nascondeva proprio nell’anonimato del suo pubblico. È curioso allora trovare la (pop)star anche al centro di Smile 2, che crea una quadro parecchio interessante in questo 2024 dominato dal legame celebrità – star system – pubblico, e al contempo si inserisce perfettamente nel filone di frantumazione psicologica contemporaneo.

Brutta storia la fama: nemmeno casa propria è più un luogo sicuro.

Finn si dimostra più colto di quel che sembra su di un duplice piano: Smile 2 sembra costituire un ponte fra il cinema di corpi anni ‘80 e il nuovo decadimento mentale, perché ora il corpo è portato al centro della messa in scena – con i suoi close shots, le sue riprese frontali e in primo piano, dove l’individuo occupa sempre larghissima parte dell’inquadratura – in modo tale da imprimere enfasi allo shock emotivo dei personaggi e dare così forma alla paura per la felicità costrittiva a cui ha portato la selfie era contemporanea; eppure come in gran parte del cinema horror di quarant’anni or sono – e come in Maxxxine, che fa’ della patina un suo punto di forza – tutto è manifesto (superficiale? Perché no), Smile 2 mostra tutto quello che deve mostrare, non nasconde i sottotesti ma anzi carica gli elementi che deve caricare senza tirarsi indietro di fronte a nulla. Ma se una volta i corpi dei malcapitati erano pedinati da coltelli e da machete, oggi ci pensa la stessa celebrità a morire davanti al suo pubblico in un graduale processo di autoannientamento in bilico fra sogno e realtà – paradossalmente, quindi, come nella miglior tradizione psicologica contemporanea citata poco fa. Naomi Scott nel ruolo di Skye convince, l’attrice regge bene la parte e riesce a suggerire tutta la progressiva psicosi a suon di tricotillomania sempre più cruenta e di visioni agghiaccianti; le stesse allucinazioni in cui è protagonista anche il suo pubblico, che nell’ultimo periodo, come in Trap, non sembra passarsela proprio benissimo nel rapporto con i suoi idoli. La differenza con Shyamalan è che Smile 2 mostra la proiezione del pubblico data da Skye, trasformandolo da minaccia a ossessione, sia esso la massa urlante e molesta in coda per i selfie, oppure anche i ballerini del tour che diventano dei veri e propri invasori di casa nella sequenza probabilmente più terrificante dell’intero film, dove regia e sonoro (col suo alternare i silenzi ai passi e alle scariche d’adrenalina) svolgono al meglio il loro dovere. Va riconosciuto infatti come Parker Finn sia maturato rispetto a Smile, i movimenti di macchina sono più fluidi, la tensione è sempre latente e impiega più minutaggio per detonare, portando anche a un minor ricorso ai salti sulla sedia; in più, Smile 2 ha il pregio di non lesinare sull’orrore, che quando arriva è disperato e senza un briciolo d’ironia, materico e quindi davvero ripugnante. Non si dimentica nemmeno il finale, dove un gesto altrettanto angosciante è la ciliegina sulla torta per lasciare lo spettatore con l’esigenza di scrollarsi di dosso quel senso di disagio persistente che, giustamente, non deve esaurirsi con i titoli di coda.

Trauma e celebrità sembrano essere i due ingredienti della contemporaneità e Finn, nonostante qualche forzatura di trama e una caratterizzazione forte riservata soltanto alla protagonista, è riuscito a metterli in scena calcando la struttura del primo capitolo senza eccessiva stanchezza, ma piuttosto introducendo la variazione sul tema che non rende questo secondo capitolo pedissequo né ripetitivo; non si negano le imperfezioni, anzi, si spera che in futuro il regista possa mettersi all’opera in contesti diversi dalla saga di Smile, eppure Smile 2 pur giocando una partita facile porta a casa anche più di quel che ci si aspetterebbe. A differenza di larga parte dell’horror contemporaneo, il film non diverte e non ti lascia con un sorriso. Per fortuna, bisognerebbe aggiungere, in questo caso…

Alberto Faggiotto
Alberto Faggiotto,
Caporedattore.