Se la protagonista ritratta da Joachim Trier pensava di essere la persona peggiore del mondo, quella del collega norvegese Kristoffer Borgli in Sick of Myself la è davvero, senza però averne consapevolezza. 

Il personaggio interpretato da Kristine Kujath Thorp (già vista nel 2022 nella commedia Ninjababy), oltre ad essere una bugiarda seriale, soffre di quella che si potrebbe chiamare main character syndrome, svia ogni conversazione non la riguardi direttamente come fossero solo rumori disturbanti in sottofondo e pretende di essere il centro del mondo non solo di chi le sta accanto ma di tutti indistintamente. Signe è la persona che nessuno vorrebbe essere, l’amica o la fidanzata che nessuno vorrebbe accanto.

Prima di tutto, però, Signe è la fidanzata di Thomas, o almeno così si sente lei, aspirante musa di un sedicente artista che si sta preparando a sfondare finalmente nei circoletti di arte contemporanea di Oslo, rubando pezzi di design nei negozi di arredamento. Thomas, oltre ad essere un artista discutibile, è anche un fidanzato terribile: lei rappresenta per lui quasi una presenza di intralcio, non le presta la minima attenzione e sminuisce il suo contributo alla sua “arte”, senza neanche preoccuparsi di presentarla come la sua fidanzata. Nonostante tutto Signe ricerca e dipende totalmente dalla sua approvazione, mentre lui semplicemente la tollera, non volendola neanche lasciare. 

Più la sua popolarità aumenta più Signe non riesce a sopportare questo squilibrio, decidendo consapevolmente di assumere il Lidexol – un farmaco immaginario, con tanto di sito in cui si  difende dalla diffamazione subita nel film– contro l’ansia e prodotto in Russia dagli effetti collaterali devastanti. Totalmente incurante delle conseguenze, gioca con la sua salute come se perderla del tutto fosse una moneta di scambio. La malattia diventa un gioco ma le sue fantasie rimangono serissime.

Questo squilibrio è sottolineato dalla sceneggiatura: infatti – non appena le eruzioni cutanee diventano visibili – Signe lo interroga insistentemente sulla gravità della situazione per portarlo ad ammettere anche la più leggera preoccupazione che potrebbe essere sintomo di cura, attenzione, forse amore. Ma la guerra per l’attenzione nella società dell’informazione è ad armi impari, perché non importa quanto in apparenza possa sembrare rilevante la tua storia, arriverà sempre qualcosa di più interessante. Nel caso di Signe a rubare subito il primo posto in homepage alla sua intervista rilasciata al tabloid norvegese è “un fottuto nerd che ha sparato a tutta la sua famiglia”, mosso forse anche quest’ultimo dallo stesso desiderio di attenzione. 

Sick of myself è un film divertente, in un’accezione quasi nevrotica anche nelle sue derive body horror, fino a che non ti rendi conto che parla anche di te. A quel punto diventa insidioso, perché agisce come uno specchio che fa emergere – è il caso di dire a fior di pelle – il nostro narcisismo latente, quella sfrenata voglia di attenzione esasperata dall’idea che spesso abbiamo di meritare, più degli altri, uno spazio nel cono di luce. 

Questo pensiero giustifica una lunghissima catena di bugie che non ottengono comunque quasi mai il risultato sperato e lei rifugge sempre di più nelle sue fantasie. Il suo punto di vista rimane centrale per tutta la narrazione tanto da esplorare e dare forma ai suoi desideri, la vediamo sulla copertina di i-D, in prima serata in televisione, incinta inseguita dai paparazzi tra le braccia di Thomas, autrice di una biografia best seller, fino alle sue paure più profonde, con il cameo di Anders Danielsen Lie che in veste di medico le restituisce la diagnosi di una terribile e insopportabile personalità. Solo nello spazio onirico Thomas la ama davvero e le persone accanto a lei le danno finalmente l’importanza che si merita, compreso il padre che rifà vivo pregando per il perdono. Da questo possiamo assumere come tutto quello che desidera le sia sempre mancato. Sogno e realtà sembrano incontrarsi solo una volta, in un climax dove, durante il sesso, insieme a Thomas si immagina il suo funerale, con code lunghissime di persone disperate che si accalcano per entrare. 

Non sono certo giustificabili gli estremi, a volte ridicoli, raggiunti ma Borgli lascia sempre intravedere l’umanità di un personaggio che non cerca attenzione solo per il gusto di farlo ma che vive un grosso equivoco, sovrapponendo il significato di amore con quello di attenzione. Se nella sua relazione l’amore manca l’unica soluzione che rimane è quella di guadagnarsi attenzione nei modi più creativi possibili, inutile dire che comunque è mai abbastanza. 

Presentato nella sezione Un Certain Regard della scorsa edizione del Festival di Cannes, non è un film perfetto, ma sintetizza e fa sue le ultime tendenze del cinema scandinavo ed è abbastanza per seguire con curiosità il percorso di questo giovane regista, che ha già annunciato e presentato in anteprima al Toronto International Film Festival il suo prossimo film, Dream Scenario, prodotto da Ari Aster e distribuito da A24 (chi non altro del resto?). 

Silvia Alberti
Silvia Alberti,
Redattrice.