Nella tradizione ebraica, lo Shiva è il periodo di sette giorni di lutto in cui i parenti stretti, dopo una sepoltura, si riuniscono per il cordoglio nella dimora del defunto, tra preghiere, banchetti commemorativi e familiari in visita. Nel corso di questo rituale sociale, lungo un’unità di tempo e luogo di poco meno di ottanta minuti, si svolge la vicenda di Shiva Baby (2020), opera prima della canadese Emma Seligman, che esordisce nel lungometraggio espandendo il suo omonimo corto del 2018 (presentato come tesi di laurea alla New York University). Protagonista, in entrambi i casi, la venticinquenne attrice e stand-up comedian statunitense Rachel Sennott, fattasi un nome come caustica battutista su Twitter, in un live-show su Instagram e nella webserie – da noi inedita – Ayo and Rachel Are Single (a occhio, un talento promettente).
Seguiamo dunque le traversie di Danielle, spigliata studentessa incerta sul futuro e in crisi di identità, che, all’insaputa di tutti, lavora come sugar baby per maturi clienti in cambio di soldi e costosi regali. Dopo un appuntamento, recandosi di malavoglia a uno Shiva nei sobborghi di Brooklyn in compagnia dei genitori, distante e annoiata in mezzo alla calca dei congiunti, si imbatte in Maya, sua ex amante. Non bastasse, si trova di fronte proprio l’uomo col quale si è intrattenuta poco prima, con avvenente moglie e figlioletta neonata al seguito a complicare gli imbarazzi, tra parenti ficcanaso che si intromettono da ogni dove e una tensione che per Danielle comincia a farsi insostenibile.
È facile riconoscere il folto background di riferimento del film della Seligman. Tra i toni dell’irriverente commedia umana, il coming of age indie e l’ansia montante da kammerspiel psicologico, riunisce umorismo alla Fran Lebowitz, un’antieroina alla Greta Gerwig, la trasgressione al senso comune, le stilettate puntute alla morale, l’attentato all’ipocrisia borghese e ai dettami dell’ortodossia religiosa (e sessuale), la provocazione dissacratoria e il cinismo paradossale del milieu ebraico di tante opere di Woody Allen e dei fratelli Coen (nel cast, spicca Fred Melamed nel ruolo del padre e del goffo schlemiel, comparso in numerosi film di Allen nonché rivale amoroso di Larry Gopnik in A Serious Man (2009).
Con, in più, la convulsione schizofrenica del nucleo familiare slabbrato dalla pecora nera – mina vagante alla Rachel getting married (2008) di Mike Nichols, alcuni riflessi della serialità recente (Transparent, Unorthodox) e le dichiarate ispirazioni della regista: il ritratto delle insicurezze teen di Palo Alto (2013) di Giò Coppola, l’osteggiata relazione tra donne e la ricerca dell’identità femminile schiacciata dalla comunità in Disobedience (2017) di Sebastián Lelio, il pedinamento attoriale e l’improvvisazione alla Cassavetes.
Shiva Baby procede però sicuro sulle sue gambe. Un’opera libera, spontanea, coraggiosa, ben scritta e ancor meglio recitata (la Sennott è fantastica), orgogliosamente personale, che rielabora il vissuto autobiografico di Emma Seligman – bisessuale e appartenente alla comunità ebraica come la sua Danielle – in una disorientata ricerca di sé che rifiuta le etichette e accetta benevolmente la stasi, l’indecisione, il blocco esistenziale, e che non teme di mostrare contraddizioni e vulnerabilità della generazione Z. Riflettendo su un tema spinoso come la gestione della sessualità, il consapevole e compiaciuto sfruttamento del corpo da parte di Danielle, senza ricorrere al revanscismo ideologico femminista, che anzi viene apertamente deriso, al pari del resto, nelle battute su corsi di gender business (?!) e pink pussyhats in marcia nei cortei.
Anche nella brillante direzione degli attori e nella messa in scena, Emma Seligman dimostra una grande padronanza del linguaggio filmico, fatto di precise scelte stilistiche: montaggio svelto e puntuale nei dialoghi più tesi, uso di lenti anamorfiche – della cinematographer Maria Rusche – per raggruppare l’affollamento di personaggi nell’ampiezza della profondità di campo, distinguendo l’isolamento estraniato e il senso di prigionia di Daniele dai capannelli di familiari sfocati sullo sfondo. È lei l’insider a cui si aggrappa il punto di vista, a spasso tra gli interni nell’ansiogena mobilità della camera a mano, che aumenta progressivamente la sensazione di opprimente claustrofobia schiacciata sul volto della ragazza: un’atmosfera soffocante e inquisitoria, con la costante pressione fisica e psicologica dei parenti appostati in salotto, pronti a far domande scomode e bloccare le vie di fuga, grottescamente distorti (le facce mostruose che si ingozzano di cibo e assillano Danielle con smorfie ghignanti). Con uno score pizzicato, ispirato alla musica Klezmer, per tirare le corde emotive di Danielle in vibrazioni quasi horror. E un finale spiraglio di ottimismo che, nello stipare tutti i personaggi in un gremito furgoncino delle diversità alla Little Miss Sunshine (2006), trova il mezzo migliore per una tregua dai conflitti.
Per dirla in soldoni, tanta roba per un magnifico esordio.
Il film è disponibile su MUBI
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