Un intrigante incontro tra il psycho-sexual drama e la commedia romantica dark, Sanctuary – presentato alla scorsa edizione del Toronto Film Festival e distribuito in Italia da iWonder Pictures – è leggero, seducente, stilisticamente audace e spesso confusionario. Il film, diretto dal giovane regista Zachary Wigon, qui al suo secondo lungometraggio, è lontano dal cinema da isolamento post pandemia ma, sfruttando un solo luogo e un tempo ben preciso, incrocia il territorio dello spettacolo teatrale e l’indie movie succoso ma senza troppe pretese. Una partita a due che si gioca in un’elegante stanza di hotel dove i confini tra verità e recitazione sono continuamente messi in discussione.
Inizia come un colloquio professionale quello tra Hal (Christopher Abbott) e Rebecca (Margaret Qualley) ma le sempre più intrusive domande di quest’ultima fanno suonare più di un campanello d’allarme. Margaret, a metà tra l’aura misteriosa tinta di verde della Madeleine/Judy di Vertigo e il finto caschetto biondo di Vivian in Pretty Woman, preannuncia di nascondere a sua volta una doppia identità, quella di dominatrice. Se sembra assurdo, ai limiti della fantasia, che il neo ereditiero di un impero alberghiero possa essere interrogato sulle sue abitudini sessuali ai fini dell’effettivo passaggio di consegne è perché è così. La fantasia in questo caso è quella di Hal che da tempo sottopone a Rebecca copioni da recitare in cui umiliazione e sottomissione fanno da protagonisti.
Sanctuary è prima di tutto una prova di recitazione per Abbott e Qualley – frutto di una scelta di casting ispirata – e il film oltre ad esserne consapevole si regge in gran parte su di essa. Non sono solo bellissimi da vedere, due dei più promettenti attori dell’attuale panorama cinematografico, ma la mimica visiva di Margaret Qualley ai limiti del bipolare che fino ad ora aveva tirato fuori solo Spike Jonze per un ormai iconico spot di Kenzo, qui ritorna in tutta la sua esuberanza per una parte che richiede estremi oscillamenti di tono. Tutte le note toccate funzionano per Margaret Qualley che rende Rebecca tanto invincibile quanto impotente. In pochi minuti la vulnerabilità si trasforma in aggressività ricattatoria, raggiungendo picchi di pericolosità che mettono in crisi la fiducia di Hal nei suoi confronti. Per lo spettatore risulta sempre più difficile capire se miri a distruggerlo o se mettendolo di fronte alla sua vergogna possa in qualche modo liberarlo, permettendogli di accettare la persona che vorrebbe essere.
La performance è centrale anche all’interno della narrazione, nello spazio del loro incontro infatti Hal e Rebecca recitano una parte ben definita, da regole che loro stessi hanno dettato e che al di fuori di quella stanza non hanno più alcuna validità. Sono parti in cui si sono intrappolati e uscirne, farne a meno, è sempre più difficile, soprattutto quando la finzione sa essere più reale della realtà stessa.
Hal è diviso e non riesce a “far coincidere l’esterno con l’interno”, se esternamente non si è mai ribellato alla concreta eventualità di “un’ascesa al trono” dopo la morte del padre – non so se sia il caso di scomodare il parallelismo con il giovane Enrico V di Shakespeare ma la scelta del nome sembra un divertente richiamo da parte di Wigon – internamente sà di non esserne caratterialmente all’altezza, preferendo essere controllato che controllare. È altrettanto facile immaginare quanto Rebecca, cresciuta in un contesto decisamente meno privilegiato rispetto ad Hal, non possa replicare in nessun modo il potere che sperimenta in quelle poche ore.
La perversione estrema rimane però solo un gancio per il marketing, che in questo caso si fa da solo tra manette BDSM e documenti riservati. Se c’è poco di realmente edgy e spinto rispetto alle aspettative, Sanctuary rimane una divertente e a tratti poco prevedibile esplorazione dell’identità, della sessualità in relazione al controllo e al potere. Il film scopre fin da subito le sue carte, facendo così sì che durante il suo sviluppo il mistero e la tensione si spostino dalla volontà di comprendere la natura della relazione che lega i due, all’esplorazione delle dinamiche psicologiche interne che vi sono dietro. Ogni volta che Rebecca cerca di uscire dall’hotel qualcosa la spinge sempre a tornare indietro e così Sanctuary resiste alla tentazione di inserire ulteriori complicazioni esterne, riportando l’attenzione dentro le quattro mura.
L’unica ambientazione viene esaltata dall’arredamento lussuoso, dalla raffinatezza nell’uso dei colori e dal dinamismo della telecamera, tutti elementi che aiutano a compensare un secondo atto meno centrato e più confusionario che ci accompagna però a un finale che fa leva sulla sorpresa con un cambio di tono potenzialmente divisivo.
Non mette in scena una feroce lotta di classe ma le differenze giocano un ruolo, non avvengono rivelazioni ma emerge comunque la volontà di esplorare cosa certe perversioni dicono di noi e della nostra identità. Insomma c’è qualcosa di tutto questo ma nulla converge per forza in un messaggio (menomale, direi!). Nulla di trascendentale certo ma Sanctuary è un bel giro sulla giostra, l’indie movie esteticamente appagante da consigliare all’utente Letterboxd più vicino a te.

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