Alla sua opera seconda Emerald Fennell, partendo da un terreno a lei familiare – i verdissimi prati del college di Oxford, che lei stessa ha frequentato – racconta il desiderio che diventa ossessione e l’indiscreto fascino del privilegio in un thriller erotico che sintetizza in una cornice pop rimandi letterari e mitologici. Dopo l’anteprima italiana alla Festa del Cinema di Roma di Saltburn si è letto di tutto, senza vie di mezzo, giocando con gli stessi estremi con cui gioca il film. Adesso che è arrivato da pochi giorni su Prime Video, possiamo dire che, come spesso accade in questi casi, la pellicola si colloca proprio nel mezzo. Un’occasione sprecata se si cercava un’inedita e tagliente satira sociale, o comunque un twist rispetto ai thriller che già si sono mossi in questa direzione – Teorema, Il Talento di Mr. Ripley, Parasite – un divertissement per chi, come la regista, pensa che Cruel Intentions sia un cult, e vuole essere intrattenuto da un cast impeccabile, da una colonna sonora avvolgente e da una fotografia seducente.
Saltburn indaga il lato più perverso dell’attrazione che si fa ossessione e voyeurismo, un desiderio che non si limita alla persona ma si allarga e cannibalizza tutto ciò che la circonda, la sua famiglia, i luoghi che abita. A cadere in questa vorticosa spirale è Barry Keoghan nei panni di Oliver Quick, matricola dall’aura nerd appena approdata nella prestigiosa Oxford, dove la maggior parte degli studenti, rampolli di famiglie facoltose, sembrano conoscersi da una vita. Tra questi spicca la sua antitesi, Felix Catton (Jacob Elordi), statuario e carismatico semi dio del campus che emana una luce capace di avvolgere tutti e abbagliare Olivier, che ne resta affascinato al punto di perdere la ragione. Mentre Oliver si impegna in piani machiavellici per non rimanere ai margini, a Felix tutto arriva in modo naturale, è affabile e gentile in un accezione quasi pietistica che sembra avere più a che fare con la beneficenza.
Per questo il suo status da reietto agisce come una calamita su Felix che presto lo prende sotto le sue ali introducendolo alla sua cricca – dove agli occhi degli altri resta comunque un corpo estraneo – e invitandolo a trascorrere l’estate nella sua residenza estiva, un sontuoso castello del dodicesimo secolo dove potranno rilassarsi a bordo piscina ascoltando gli MGMT. Un idillio che presto si spezza quando viene alla luce la fastidiosa abitudine di Felix, ereditata dai genitori, di intrattenersi ogni anno con persone di rango inferiore finché non passa il divertimento, per poi gettarle nel dimenticatoio come vecchi giocattoli. “Non ne ero innamorato” La prima cosa che Oliver dice e ripete nei diversi flashback che si alternano nel racconto è una bugia. Il loro rapporto è rafforzato da un’energia omoerotica che scorre sotto pelle senza rendersi mai eccessivamente palese, in una tesa ambiguità sostenuta dalle performance attoriali. Questo spazio indefinito permette a Elordi di restituire un ritratto più sfaccettato di un personaggio bambinesco e a Keoghan di eccellere proprio nei momenti di silenzio dove, con lo sguardo disturbante incontrato nel film-consacrazione di Lanthimos, dona al racconto un imprevedibilità essenziale che non arriva dalla sceneggiatura.
Il casting si riconferma un punto di forza di Emerald Fennell – qui con personaggi tratteggiati così vividamente da avvicinarsi al reale – e l’armonia corale tra di essi emerge all’arrivo dei protagonisti a Saltburn. Tutte le famiglie snob si somigliano, ogni famiglia radical è invece radical a modo suo; in questo senso a rubare la scena al resto della famiglia Catton è la Lady Elspeth di Rosamund Pike -a cui sono affidate tutte le battute più iconiche e taglienti del film– ex itgirl riciclata matrona old-money convinta di aver ispirato i Pulp per Common People. Dopo il ruolo da protagonista in Promising Young Woman Carey Mulligan torna riuscendo a rendere memorabile, anzi degno di uno spin-off tutto suo, il personaggio secondario di “poor” Pamela, ospite svampita e alla moda che manca della perspicacia di capire quando è di troppo.
É proprio Pamela a rendere esplicito quanto le persone come lei e Oliver siano affascinanti agli occhi delle famiglie Catton di turno finché agiscono da specchio riflesso della loro stessa bellezza e generosità. Il personaggio di Keoghan, come il protagonista di un romanzo gotico – non a caso all’inizio del film viene citato lo scrittore Evelyn Waugh che aveva parodiato con un tocco thriller i modi di vivere dell’alta società inglese nel libro Ritorno a Brideshead – si insinua con l’astuzia di un parassita tra le mura della residenza. Muove a piacere i suoi abitanti, individuandone i punti deboli e mangiandoli dall’interno, come in un gioco di marionette. Oliver, passando dalla seduzione e dal sesso, si fa vampiro all’interno di una società che già la è da secoli, affilando i denti per una personale scalata al potere.
Se i piercing al sopracciglio, le magliette di Tommy Hilfiger e i Rayban Wayfarer colorati non fossero bastati a ricordarcelo, siamo nel 2006 ma i rimandi che ricorrono e si alternano nel film ci portano in momenti ben diversi. Questa attenzione contribuisce alla creazione di un impianto estetico impeccabile: la scelta del luogo ci riporta a un Call me by your name dove l’idillio è spezzato, la simbologia e i riferimenti a Shakespeare – in tutte le sue forme, compresa la rilettura di Baz Luhrmann del 1996- si sprecano e culminano in una sequenza di festa liberamente ispirata a Sogno di una notte di mezza estate nella quale Oliver e Felix si muovono come Teseo e il Minotauro nel labirinto al centro del giardino. Una storia che si districa nella complessa relazione tra sesso, morte, potere e inganni, elementi immancabili della più classica delle tragedie.
É quindi un peccato dover constatare come questa stessa cura non sia stata riservata anche a altri comparti altrettanto essenziali del film, come la sceneggiatura. Ripetendo una pigrizia che, nonostante l’Oscar vinto, era alla base del controverso finale del film precedente. Il fattore shock vuole prendere il sopravvento con scelte che avrebbero potuto però essere decisamente più spinte e disturbanti. Così, ancora una volta, funzionano meglio le singole scene rispetto al loro insieme, perdendo mordente e originalità proprio nel terzo atto dove tutto avrebbe dovuto concorrere a stupire maggiormente. Saltburn non aggiunge osservazioni acute al filone Eat the rich e preferisce fermarsi ad esplorare le tragiche conseguenze dei desideri castrati; per quanto potrebbe sembrare un’occasione mancata, tutti gli altri elementi si incastrano così bene che è difficile non lasciarsi trasportare da questo divertente giro sulla giostra, con una sequenza finale che è già cult.
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