Nel 2022, la regista francese Alice Diop firma il suo primo lungometraggio dopo un percorso da documentarista iniziato nel 2005. Saint Omer viene presentato nel corso della 79ma edizione del Festival di Venezia, stregando pubblico e critica. Due premi: il Leone del Futuro – Premio Venezia opera prima “Luigi De Laurentiis” e Gran Premio della Giuria.  Ambientato nella cittadina costiera di Saint Omer, il film si concentra intorno al caso giudiziario che coinvolge la giovane studentessa Laurence Coly (Guslagie Malanda), colpevole di infanticidio. Al processo, assiste la scrittrice e docente universitaria Rama (Kayije Kagame), in cerca di spunti dal vero per la stesura di un romanzo incentrato sul mito di Medea. 

Se con il francese L’événement – La scelta di Anne (2021) di Audrey Diwan la riflessione sulla maternità s’incrocia con la necessità di rivendicare la libertà del corpo femminile, con Saint Omer ci troviamo di fronte all’impossibilità di decifrare il mistero della procreazione. Diretto in uno stile che ricorda l’aura di dubbio che caratterizza Il sospetto (Vinterberg, 2012), Saint Omer non fornisce risposte né soluzioni: unicamente allo spettatore è affidato il difficile compito dell’interpretazione al termine della visione.

IL FILO ROSSO CHE CI UNISCE

La maternità implica necessariamente una madre e un figlio. Attraverso una complessa struttura narrativa, il film di Alice Diop è articolato in un sofisticato sistema di doppi, legami e contrapposizioni. Rama sta vivendo i primi mesi della maternità, e si rispecchia nella madre insofferente e distante; ma si riflette anche in Laurence, nel suo gesto estremo dalle motivazioni incerte. L’unione che trascende l’estrazione sociale e le etnie si articola intorno alla difficoltà di essere madri, in seno a diverse motivazioni: dietro il distacco della madre di Rama si cela un profondo sentimento di inadeguatezza, di nostalgia verso il proprio paese d’origine, nonché il forte legame con le tradizioni africane; la vita di Laurence viene drammaticamente segnata dalle aspettative dei genitori che vogliono per la virtuosa figlia un futuro di successo. 

Questo racconto di madri e figlie viene narrato secondo un abile gioco di parole e silenzi. A Rama sono affidate pochissime battute, poiché bastano i suoi sguardi malinconici a manifestare la sua insofferenza e i suoi timori all’indomani della nascita del figlio. Allo stesso modo, sua madre è silenziosa, quasi un fantasma: per lei parlano i flashback che la mostrano nel fiore della sua matura bellezza, del tutto svanita nel presente. Formidabile e altamente eloquente, in tal senso, è la scena in cui la regista mostra la donna indossare i suoi abiti tradizionali e i gioielli di fattura africana davanti a un vecchio specchio: l’immagine della Rama bambina seduta sul letto, accanto alla madre, è il simbolo di una maternità corrotta dalla solitudine, dall’impossibilità di ritornare nella terra natìa, la quale può essere evocata solo tramite gli oggetti. 

La protagonista Rama durante il processo

In contrasto con le sequenze dedicate a Rama e alla madre, le scene in cui Laurence è protagonista sono intrise di parole. Le parti ambientate in tribunale, durante il dibattimento, sono caratterizzate da una scrittura eccellente. La ragazza oscilla tra l’essere una vittima delle circostanze a essere additata come un mostro. L’auto-negazione della maternità è da ricercarsi nel suo rapporto con una madre che ha preteso troppo dalla figlia virtuosa? Oppure dalla sua volontà di fare carriera che si è scontrata con le difficoltà della vita? La sua figura come madre viene posta sul banco degli imputati e dissezionata come un corpo morto. Durante l’arringa finale, l’avvocato di Laurence tenta in estrema ratio di difendere la sua cliente e, in questo momento, pronuncia un concetto che è il cuore di tutto il film. La donna cita le cellule chimera, le quali sono il risultato dello scambio tra quelle del feto e quelle della madre durante la gravidanza: in questo senso, ogni figlia e ogni madre restano perennemente connesse, non c’è via di scampo. Il filo che salda la procreazione spaventa Rama e atterrisce il pubblico, perché anche dinanzi al gesto deplorevole di Laurence, ella resta comunque una madre; mantiene, nel suo corpo, le tracce della figlia che ha assassinato. Alice Diop, in questo senso, genera un conflitto nello spettatore, giacché non induce al giudizio in senso stretto: la regista conduce il pubblico verso la via dell’introspezione; domanda, in questa forma, di riflettere sul senso assoluto della maternità e sui suoi lati oscuri.

UNA MODERNA MEDEA

Il mito di Medea, moglie di Giasone che per vendicarsi verso il marito uccide i propri figli, è già stato oggetto di messinscene teatrali e cinematografiche. Celeberrimo è l’adattamento di Pier Paolo Pasolini del 1969: la scena che preannuncia l’infanticidio viene mostrata anche nel film di Alice Diop, sancendo un forte collegamento con la tradizione cinematografica riguardante il mito. In Saint Omer, Medea è Laurence, madre che abbandona la figlia di quindici mesi sulla spiaggia durante la notte, sperando che la marea la porti via. Rama è convinta che, assistendo al processo, possa trarre spunti per la scrittura del suo prossimo romanzo incentrato sulle “Medee moderne”. Tuttavia, lo scontro con la realtà è duro e violento. Il racconto di Laurence sul banco degli imputati lascia atterriti, così come le testimonianze del compagno, della madre e della sua docente universitaria. La stessa Rama, nel momento in cui incrocia lo sguardo enigmatico di Laurence, non resiste e scoppia a piangere. È proprio l’ambiguità dell’assassina che lascia senza parole: all’inizio del processo la ragazza pare sincera e non possiamo che patteggiare per lei; tuttavia, le discrepanze nel suo racconto vengono rimarcate dalle parole del giudice, da quelle del compagno che la descrive come una ragazza fredda e manipolatrice. La docente asserisce che la scelta di Laurence di trattare Wittgenstein nella sua tesi sia segno di una volontà di indossare una maschera, di negare le sue detestate origini africane 

Laurence viene interrogata, parla con un francese perfetto: eppure, dietro alle sue parole si cela il dubbio di una verità assente. Perché il fatto è dichiarato, la ragazza non lo nega, e l’intero processo si articola intorno alla necessità di appurare le ragioni di un gesto così contronatura. Ma i dilemmi sono molteplici: Laurence asserisce che è stata una stregoneria inflitta dalle zie senegalesi ad averla indotta a compiere l’omicidio, dichiarazione che, effettivamente, trascende ogni cultura ed etnia; basti pensare a come la tradizione italiana sia così legata alla credenza del malocchio e della superstizione. Ma nei suoi sguardi analizzati dal punto di vista di Rama dicono tutt’altro. La Medea-Laurence non è mito, ma realtà, così come lo sono i casi di infanticidio che ritroviamo nelle pagine di cronaca nera. La concretezza delle vicende spaventa Rama e il pubblico in sala, perché non è possibile rinvenire cause certe: non si sa se il gesto di Laurence sia dovuto alla stregoneria, a una grave forma di depressione, o a un animo radicalmente maligno. Fino alla fine non si riuscirà a comprendere le motivazioni dietro al suo tremendo gesto: la soluzione forse non si cela nelle parole, ma nei silenzi, negli sguardi e nelle smorfie abbozzate. 

La solitudine di Rama

LA SOLITUDINE DI MADRI E FIGLIE

Con Saint Omer il mistero della maternità viene indagato con graffiante realismo ed eleganza stilistica. Erede della tradizione documentaristica, Alice Diop firma un film che manifesta la necessità di scandagliare il rapporto tra madri e figlie, ponendo l’accento, in particolare, sulla loro solitudine. Rama, sua madre e Laurence sono donne sole che affrontano, come tali, il difficile compito di vivere la gravidanza, di partorire, di accudire una vita in un mondo colmo di orrori. Il legame tra creatrice e creatura è inscindibile, ma non al riparo dalla cruda realtà. E allora, che fare? Saint Omer, ancora una volta, non fornisce risposte: non viene mostrato il momento del verdetto, durante il processo a Laurence. Decifrare questo film colto e stilisticamente raffinato è compito esclusivo dello spettatore: resta a noi la facoltà di riflettere sul mistero della maternità e sulle moderne Medee.

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Shannon Magri, Redattrice