Il nuovo film di Noah Baumbach rilegge in chiave Netflix un caposaldo della letteratura postmoderna USA

Noah Baumbach firma il suo dodicesimo lungometraggio, il terzo in collaborazione con Netflix dopo The Meyerowitz Stories: New and Selected del 2017 e Storia di Un Matrimonio (Marriage Story, 2019, candidato a 6 premi Oscar, con la sola Laura Dern premiata come Miglior Attrice Non Protagonista). E proprio come in quest’ultimo film, Baumbach sceglie nuovamente come protagonista Adam Driver, affiancato stavolta da Greta Gerwig (compagna di Baumbach nella vita reale, i due hanno collaborato al nuovo Barbie in uscita nel 2023). Dal titolo White Noise (in Italia Rumore Bianco), tratto dal romanzo omonimo del 1985 (vincitore di un National Book Award) di Don DeLillo, icona della letteratura postmoderna statunitense, il film è stato selezionato in Concorso per la 79esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, presentato come film di apertura il 31 agosto e distribuito limitatamente tra fine novembre e inizio dicembre nelle sale cinematografiche per poi arrivare sulla piattaforma il 30 Dicembre 2022. Il film è un crogiolo di vari generi narrativi, toccando il thriller e l’horror catastrofico, ma mantenendo sempre un sostrato di commedia nera.

Siamo nel 1984 e Jack Gladney (Adam Driver) è un professore ebreo di un corso da lui fondato presso il College-on-the-Hill: Studi Hitleriani. La sua famiglia è composta dalla moglie Babette (Greta Gerwig) – entrambi sono al quarto matrimonio – e quattro figli. La vita di Jack scorre tra l’attività accademica, le lezioni private di tedesco, i confronti con i colleghi e una serena vita in famiglia nell’area compresa tra la casa, il college e il supermercato. L’unico neo presente è la costante paura della morte che attanaglia sia Jack che Babette. Un’esplosione di un gas velenoso in seguito ad un incidente automobilistico sconvolgerà la loro vita.

Chiunque abbia mai visto un film di Baumbach (o abbia letto qualcosa di DeLillo) sa già cosa aspettarsi: un turbine inarrestabile di parole, dibattiti filosofico-scientifici, metafore, una macabra ironia, una catastrofe in arrivo di natura sconosciuta, famiglie alto borghesi (e come Baumbach, colte e di estrazione ebraica) che amano parlare di versi degli animali, di composizioni chimiche e, da bravi americani, di pillole e cereali. 

Effettivamente essere travolti dalla sceneggiatura del film non è difficile per lo spettatore, e la parola “pretenzioso” balzerà facilmente alla mente di chi mal digerisce un certo tipo di narrazione e costruzione dei protagonisti, i quali tradiscono facilmente la loro origine di personaggi di un romanzo americano scritto negli ultimi trent’anni. D’altronde nessuno, se non un americano intellettuale, potrebbe concepire il supermercato come locus amenus, il consumo e l’acquisto come pace dei sensi ed esplosione di sincera gioia sulle note degli LCD Soundsystem, la vista dei prodotti ordinatamente disposti come modo per esorcizzare addirittura il lutto. Quale europeo proverebbe gioia nel vedere un bancone del pane o una macelleria paragonandoli ad un bazar persiano? Per un europeo il supermercato è il non luogo per eccellenza, l’alienazione totale della mente in funzione delle necessità corporali; probabilmente l’ultima scena significativa girata tra le corsie in Italia si è conclusa con “Fuori dal letto, nessuna pietà” pronunciata da una simpatica vecchietta.

Sicuramente saranno in molti a criticare la netta prevalenza della parola sull’immagine, del dialogo sul movimento di macchina, evitando anche di lodare quei momenti in cui l’occhio dello spettatore viene completamente appagato, come vediamo in due luoghi cardine del film. Il college, dalle tinte pastello e quasi un luna park della cultura (“il giorno dei van” attende con ansia Babette ad ogni inizio di anno accademico) un po’ come la Rushmore di Wes Anderson, e il sopracitato supermercato, in cui i marchi colorati di caramelle, detersivi e cereali spezzano le immense scaffalature di scatole bianche e anonime. Esempio significativo è la doppia lezione parallela su Hitler ed Elvis, duetto eccelso tra Adam Driver e Don Cheadle, forse uno dei migliori attori spalla in circolazione, con presenze mortifere (le toghe dei docenti) anche in un ambiente ameno come le aule gremite da giovani (chiunque avrebbe voluto una scuola così). 

Una fotografia risulta essere  luminosa e a tratti fumettistica, con grande esposizione dei “colori Netflix” nei costumi e negli arredi alternati a toni oscuri, dal grigio della nube al blu notte delle scene in cui ci immergiamo nella depressione dei protagonisti o nella presenza del “villain”. Lodevole la rappresentazione fisica dei protagonisti, Adam Driver imbolsito e pasciuto, Greta Gerwig con una capigliatura anni ’80 di Meg Ryan ai tempi d’oro, i due figli più grandi definiti da un curioso oggetto ciascuno (binocolo e passamontagna). 

White Noise è una perfetta rappresentazione postmoderna di una categoria sociale, di un’insicurezza di fondo apparentemente ingiustificata, di una famiglia composita che pretende di tenersi in piedi grazie alle parole, ma che non sempre può far fronte alle avversità. Tuttavia è un film fondamentalmente ottimista, che rifiuta di condannare chiunque, e forse per questo il film meno amaro di Baumbach, adatto a chiunque sia in grado di digerire la sua verbosità.

Questo articolo è stato scritto da:

Nicolò Cretaro, Redattore