C’è una scena in cui Freddie balla spensierata – quasi dimenandosi – tirando pugni all’aria sulle note della splendida “Anybody” di Jérémie Arache and Christophe Musset, il cui ritornello riecheggia “I never needed anybody”. Nella scena subito dopo con la scusa di avere un fidanzato in Francia rifiuta beffardamente la proposta di fidanzamento del ragazzo con cui era stata a letto una delle notti precedenti. Passa un secondo e la vediamo uscire dal pub a braccetto con il DJ che aveva sedotto poco prima del “ballo”, ma la camminata è interrotta dal padre biologico di Freddie in preda ai fumi dell’alcool. La ragazza gli urla in faccia “Non mi toccare!” e corre via lasciando impalato anche il DJ. Skip temporale di due anni: Freddie è a cena con un quarantenne.
Freddie nelle strade al neon di Seoul
E’ inafferrabile, Freddie (per meglio dire, Frédérique Benoît). Scivola via. Costantemente. E’ irrequieta. Impulsiva. Fredda, a tratti glaciale. Sembra davvero non aver bisogno di nessuno. E quel suo “ballo” era esattamente come lei, imprevedibile, sfuggente, ai limiti della nevrosi. Ma siamo sicuri sia proprio così? Che Freddie non abbia davvero mai bisogno di nessuno? E allora perché sarebbe dovuta andare fino in Corea del Sud per rintracciare i suoi genitori biologici se davvero non ha bisogno di nessuno? Che assoluto controsenso. Quel “ballo” è tanto idiosincratico quanto Freddie. E’ ovvio sin dal primissimo minuto: prima o poi a Freddie dovrà sciogliersi la maschera di cera. Dovrà per forza accogliere qualcuno nella sua vita.
Questa era una delle sequenze più affascinanti di Ritorno a Seoul, secondo film del regista franco cambogiano Davy Chou, approdato l’11 maggio nelle sale italiane grazie a I Wonder Pictures in collaborazione con MUBI. Già presentato con il titolo All The People I’ll Never Being nell’Un Certain Regard del settantacinquesimo Festival di Cannes e in anteprima italiana al quarantesimo Torino Film Festival, ha poi cambiato nome in Return to Seoul dopo che i diritti di distribuzione sono stati comprati da Sony Pictures Classics.
Il primo incontro padre-figlia
Protagonista è Freddie (Ji-Min Park, qui al suo sbalorditivo e magnetico esordio), ragazza di venticinque anni che dopo essere stata adottata da una coppia francese e aver vissuto tutta la vita in Francia, torna per la prima volta in Corea del Sud. A Seoul inizia la ricerca dei genitori biologici: il padre sarà presto rintracciato, mentre la madre rifiuterà più volte l’incontro. Nell’arco di una storia lunga otto anni, il primo approccio di Freddie a una nuova cultura e all’inaspettato si scontrerà con il suo carattere testardo e esuberante.
Per niente artefatto, mai ricattatorio: la spontaneità che permea ogni secondo del racconto e che si riflette anche nella recitazione di Ji-Min Park, è probabilmente frutto del carattere autobiografico dell’opera che trae ispirazione dalle vicende personali del regista Davy Chou, nato in Francia da genitori cambogiani e tornato per la prima volta in Cambogia proprio a venticinque anni come Freddie. Nel 2011, inoltre, per le riprese del suo documentario Golden Slumbers ha viaggiato in Corea del Sud in compagnia di una sua amica nata in Corea ma adottata da genitori francesi, e che ha colto l’occasione per incontrare per la prima volta il padre biologico e la nonna.
Freddie cerca un (finto) contatto con la cultura coreana
Ritorno a Seoul è un film di barriere da abbattere: quella linguistica, perché Freddie ha bisogno di un interprete addirittura per dialogare col padre (oltre a scoprire di aver pronunciato male il suo nome di battesimo sin dalla nascita); quella memoriale, laddove l’unico ricordo della Corea che ha avuto lungo il corso della sua vita era una foto della madre; quella emotiva, che impedisce a Freddie di capire chi è veramente e di mostrarsi agli altri per quello che è davvero (“Sei una persona molto triste” le verrà confessato); e infine anche quella culturale, su cui però Chou decide saggiamente di soffermarsi di meno per interiorizzare invece il discorso e sottrarlo da un piano meramente sociale. Freddie infatti ammetterà che la Corea è “tossica” per lei, ma la tossicità di cui parla è interiore e conseguenza della sua barriera emotiva, che la rende fredda e le rende faticoso accettare e riconoscere la reciprocità del suo bisogno di amore e appartenenza.
Freddie “balla” sulle note di “Anybody”
Infatti, in contrasto con la struggente storia della Corea del dopoguerra, il regista mette al centro del dramma l’incapacità di guardare in faccia la realtà, noi stessi e gli altri. Nella parabola (anche se è in realtà un roller coaster) di Freddie, la sincerità è costantemente minacciata e pregiudicata da complessi psicologici, familiari e culturali. Allora ritorniamo al “ballo” dell’incipit, dove Freddie finge di essere veramente sé stessa, dove vuole convincersi di poter vivere per sempre una vita spensierata in cui non ha bisogno di nessuno. Autoconvinzione, nient’altro. Anybody può vivere senza aver bisogno di nessuno. Ma Freddie lo capirà troppo tardi, e il regista non offre alcuna catarsi: Freddie riesce a incontrare di persona la madre, ma i due non si scambiano nemmeno una parola (per quanto ci è consentito di vedere). Una volta a casa ci ripensa e cerca di contattarla. Nessuna risposta: l’indirizzo e-mail non esiste.
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