Mort Rifkin (Wallace Shawn), bonario e disilluso professore di cinema newyorkese in pensione, accompagna senza entusiasmo la moglie Sue (Gina Gershon), indaffarata press agent dello show-biz, in trasferta spagnola al Festival del Cinema di San Sebastián. Mentre il rapporto sembra sfaldarsi a contatto col terzo incomodo Philippe (Louis Garrel), giovane e pretenzioso regista engagé inseparabile da Sue, spettri e visioni cominciano a turbare i sonni in albergo di Mort, ma un’insperata nuova conoscenza femminile gli regalerà l’occasione di riconsiderare la sua vita.

Rifkin’s Festival dà la sensazione del ritorno a casa. Del ritrovarsi in un rifugio confortevole e familiare. In un posto delle fragole che sì, comporta qualche amarezza e più di un rimpianto, ma in fondo trasmette serenità. In primis la nostra, che torniamo a sederci tra le poltrone in sala a godere del film, ma soprattutto quella del suo autore che a ottantacinque anni, giunto al 50° lungometraggio, serafico, imperturbabilmente fedele a se stesso e ai sempiterni motivi per cui vale la pena vivere (e andare al cinema), si può permettere di clonare “alla lettera” i suoi sogni di celluloide, come mai aveva fatto prima, non con questa evidenza esibita nel replicare materia, feticci e figure del suo immaginario.

Non sono più i tempi in cui, per affrancarsi dal comico puro e fregiarsi della patina d’autore drammatico e sofisticato, i prestiti dagli amati Bergman e Fellini passavano velatamente, sottotraccia intellettuale: nell’atmosfera cupa e raggelata e nelle plumbee solitudini di Interiors (1978), nei volti fellineschi dentro il traffico asfissiante nell’incipit di Stardust Memories (1980), nei fantasmi della memoria e degli affetti sopiti di Un’altra donna (1988). Oggi, Allen, giovandosi dell’aria frizzante e vacanziera di una luminosa San Sebastián, libero, giocoso e leggiadro come non mai – un paradosso, vista la gogna inquisitoria che subisce per i motivi che ben sappiamo – non cita Quarto Potere (1941), (1963), Persona (1966), Il settimo sigillo (1957), Lelouch, Godard, Buñuel (già in Midnight in Paris (2011) Gil imbeccava il regista spagnolo sull’idea centrale per L’angelo sterminatore (1962), che qui rivive con gli ospiti bloccati sulla soglia, impossibilitati a uscire).

Nell’allestire il suo personale festival retrospettivo e introspettivo, il catalogo delle sue immagini-affezione, li rimette in scena, li rifà praticamente uguali, per filo e per segno (a modo suo, certo, e per tramite onirico e psicanalitico della guest star Mort Rifkin). Un calco formale perfetto: nel taglio dei piani e nei movimenti di macchina. Nello stile, nella grana e nei bianchi e neri delle inquadrature (sfavillante la pittura digitale di Vittorio Storaro, a contrasto con i magnifici esterni). Nei setting mimeticamente ricostruiti. Nei volti iconici e nella galleria dei personaggi noti che sfilano sui motivetti di Nino Rota o sulle biciclette di Jules e Jim (1962), nelle musiche e nei dialoghi rivisti ad arte (Gina Gershon ed Elena Anaya, dramatis Persona(e), arrivano a scambiarsi le battute in svedese!). Questione più estetica che filosofica, incarnata dallo stesso Mort, che passeggiando nelle chiese scredita l’ortodossia cristiana (“Come scrissi nella mia tesi di laurea: Gesù era un ottimo falegname, avrebbe dovuto rinascere nel labour day, non a Pasqua!”) ma ne celebra ammirato la bellezza iconografica.

L’Allen’s festival non può certo dimenticare i consueti sofismi sui massimi sistemi. “Se la vita non ha significato, non è detto che debba essere vuota”, spiega il Tristo Mietitore – altra presenza abituale – tra le dritte per la dieta e i consigli per il fitness. Allen, come sempre, trova tregua dall’angosciante ricerca del senso, la pace con il proprio sé idealizzato, tuffando la bulimia creativa nella (retrò)proiezione delle pellicole del cinema classico ed europeo che gli girano in testa, e che lui continua a rigirare all’infinito, personali rocce di Sisifo sospinte in aeternum. Provando ancora una volta a non darla vinta alla Morte al tavolo della sua scacchiera, con Christoph Waltz a indossare il nero mantello di Max Von Sydow. Derivativo? Scontato? Batte sempre sugli stessi tasti? No. È la massima libertà possibile, testardamente inattuale, per chi si concede il ritorno salvifico e terapeutico allo smalto intatto delle immagini di cinema che ha amato, sottratte all’oblio e riportate fastosamente in vita, e fatte risplendere, per noi, una volta di più. Grazie, Woody!

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Daniele Badella, Redattore