Era solo questione di tempo prima che anche Aretha Franklin ricevesse il trattamento “biopic musicale” – ritornato in auge negli ultimi anni con film quali Bohemian Rhapsody e Rocketman – che consente di (ri)scoprire un’icona musicale ascoltando una selezione di canzoni storiche, reinterpretate per l’occasione, e allo stesso tempo di studiare la persona dietro l’artista. É proprio questo il filone che segue anche Respect, film finito in development hell per alcuni anni e per il quale è stata coinvolta in fase di pre-produzione anche la stessa Aretha Franklin, prima della sua scomparsa nel 2018.

Figlia di un pastore battista, Aretha Franklin (Jennifer Hudson) cresce in una casa che vive pienamente il fermento culturale dell’epoca così come le battaglie per i diritti civili degli afroamericani. La casa di famiglia che vanta ospiti illustri come Sam Cooke e Duke Ellington, l’amicizia con Martin Luther King Jr e gli appassionati discorsi del padre C.L. (Forest Whitaker). Il film documenta la vita e la carriera artistica della Regina del Soul, dagli anni ‘50 fino al 1972, anno di uscita dell’album gospel Amazing Grace, uno dei suoi più grandi successi. Una vita travagliata e una carriera musicale impareggiabile che, tuttavia, sono state raccontate nel modo più prevedibile e didascalico possibile.

Respect è un biopic che segue quasi tutti i passaggi obbligati del genere: formazione, ascesa, caduta, redenzione di una leggenda musicale si susseguono con una prevedibilità che fa tenerezza da quanto è stereotipata. I lati oscuri della protagonista (l’alcolismo, le sue insicurezze) vengono inoltre trattati in modo vacuo, quasi con pudore, senza dar loro il giusto peso. Forse solo il rapporto tormentato con il padre (Forest Whitaker) e con il primo marito Ted White (Marlon Wayans), e il suo faticoso cammino verso la consapevolezza vengono trattati con la giusta gravitas. Il fatto che un film sia basato su una vita vera non dovrebbe impedire di studiare la vicenda con uno sguardo originale o con un certo spessore, cose che qui mancano. La regia di Liesl Tommy (apprezzata regista teatrale e vincitrice di un Tony Award) è buona anche se non molto innovativa, così come il resto del comparto tecnico, dal montaggio alla fotografia: la ricostruzione storica dei tre decenni raccontati nel film è sufficientemente patinata e gradevole ma non degna di nota. Il problema è proprio nella sceneggiatura, competente a livello drammaturgico ma superficiale, che si tira indietro quando dovrebbe al contrario insistere sui temi che suggerisce. Questi difetti strutturali, oltre a far perdere ben presto interesse per delle vicende prive di mordente, schiacciano anche quello che avrebbe potuto essere il maggior pregio del film: l’interpretazione da protagonista di Jennifer Hudson. L’interpretazione infatti è molto buona, e in alcune scene fa trasparire tutto il carisma e la bravura dell’attrice vincitrice del premio Oscar nel 2007, ma si ha costantemente l’impressione che la Hudson avrebbe potuto offrire molto di più, se solo avesse avuto tra le mani un ruolo più consistente,. Occasione mancata anche qui, insomma: un cast di bravi attori cui non è stato dato del materiale all’altezza.

L’intenzione di offrire un ritratto imparziale della persona prima che dell’artista è evidente, ma Respect finisce con l’essere fin troppo vago e convenzionale. Un biopic che può essere piacevole per scoprire un’icona della musica, ma che in definitiva non rende giustizia alla figura della Regina del Soul.

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Valentino Feltrin, Redattore