Sean Baker si riconferma uno dei più interessanti registi degli States: Red Rocket segue la scia dei suoi precedenti lavori legati al sottoproletariato americano, ma non perde un briciolo della forza espressiva del suo cinema.
Presentato in concorso al 74º Festival di Cannes, Red Rocket arriva nelle nostre sale dopo cinque anni dal pluripremiato Un sogno chiamato Florida, unico film di Baker ad essere stato distribuito nel nostro Paese nonostante fosse il suo sesto lungometraggio – il precedente Tangerine (2015), girato interamente con tre iPhone 5s e montato con Final cut Pro, era stato soltanto presentato al Torino film festival. Red Rocket mantiene l’estetica bakeriana ormai consolidata e le tematiche di fondo: lo scapestrato suitcase pimp (americanismo per intendere un uomo che guadagna da vivere tramite relazioni con pornoattrici) Mikey “Saber” (un riscoperto Simon Rex), dopo aver cercato – invano – successo nella Southern California, lascia Los Angeles per tornare nel Texas, suo luogo di nascita, più precisamente a casa della sua “ex” moglie (formalmente non ancora divorziati) e della suocera. Mikey pare volersi davvero riassestare e lasciare la vita da adescatore seriale, ma tutto crollerà con la conoscenza della diciassettenne Strawberry, commessa in un “donuts” poco distante, facendo riemergere il suo carattere di adulatore e la sua voglia di lasciare la città.
Baker – con ancora gli echi del capolavoro Boogie Nights – l’altra Hollywood (1997) di Anderson, sempre con protagonista un pornoattore – perpetra un nuovo attacco all’idea del sogno americano consolidando la sua estetica personale, questa volta optando anche per la grana tattile della pellicola 16mm e mediando splendidamente fra cinema underground e mainstream: tornano i suoi colori iper-saturati (talvolta fluo) che rendono le inquadrature quasi metafisiche e che già avevano caratterizzato il suo predecessore, Un sogno – per l’appunto – chiamato Florida (2017), pellicola che portava già nel titolo l’evidenza dicotomica fra estetica catchy e illusorietà dell’American dream.
Perché d’altronde sta qui il succo del cinema di Baker: un cinema di opposti, di contrasti di contraddittorietà; sotto i quadri dreamy che ci propone, sappiamo bene che i protagonisti sono destinati a fallire nella loro ricerca di riscatto e di successo. In Red rocket addirittura il protagonista ha già fallito, ma la caduta sarà doppia e – forse – più rovinosa.
Se nel film del 2017 la fuga immaginifica delle piccole protagoniste prendeva corpo in una Disneyland limitrofa alle loro squallide case popolari, ora Mickey sembra aver già assaporato l’illusorietà di un’evasione di quel tipo; a far da sfondo alle sue avventure texane non potrà che esserci il grigiore e i fumi dei grandi impianti industriali, terre aride e incolori contrapposte alle luminescenze della sua quotidianità, in cui grazie (o a causa?) di Strawberry, riacquista l’incoscienza di uno speranzoso futuro pornografico assieme alla minorenne.
L’imparzialità registica, l’umanizzazione di un approfittatore come “Saber” e una sua descrizione così partecipata, potrebbero apparire di cattivo gusto e eticamente scorrette, ma il cinema di Baker trae appositamente linfa dalle sue contraddizioni e dalle sue dualità: sta allo spettatore afferrare il substrato metaforico sottostante alle immagini sgargianti e visivamente idilliache, magistralmente composte dal regista. Siamo noi, pubblico, a dover andare oltre le apparenze e notare come le generazioni americane messe in scena si bruciano con la stessa velocità di una sigaretta, o percepire la scelleratezza di Mickey nell’interpretare una scampata incarcerazione come segno propiziatorio, per un eventuale riscatto futuro.
Se in Un sogno chiamato Florida l’american dream stava nei territori limitrofi, in Red Rocket ci viene sbattuto in faccia per più di due ore: il sogno americano assume proprio le fattezze di “Saber” ed i suoi manipolatori tentativi di redenzione, fantasticando su un utopico futuro che altro non potrà fare che denudarlo (letteralmente) di tutte le sue illusioni.
Baker ci descrive nuovamente con toni originali, personali e unici i reietti, le parti dell’America che gli stessi Stati Uniti a stento raccontano, le fasce della popolazione che hanno provato sulla loro pelle le fantasie deliranti del sogno americano. Il finale di Red Rocket, per quanto possibile, è persino più drammatico dell’opera che la precede: non è più nemmeno possibile una fuga fisica, non resta che quella nell’immaginazione.
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