Dopo la ricostruzione storica del caso Moro in Esterno Notte, Marco Bellocchio ritorna a parlare di rapimenti e giochi di potere. Presentato in concorso alla 76ma edizione del Festival di Cannes, Rapito è un affresco storico sontuoso e privo di sbavature, che ricostruisce un caso poco rievocato nei testi scolastici. Il regista piacentino scava a ritroso nella storia d’Italia, al tempo in cui l’Italia unita era sia sogno che incubo: in questo contesto storico cangiante, è lo Stato Pontificio l’ultimo baluardo reazionario, l’ultimo fronte di resistenza alla volontà di unificare la penisola. Ed è in questo clima in cui poteri nuovi si scontrano con poteri antichi che Bellocchio racconta il caso di Edgardo Mortara. Figlio di una famiglia ebraica borghese, il piccolo Mortara si ritrova al centro di un drammatico confronto: battezzato segretamente dalla domestica cristiana – che voleva assicurare al bambino la salvezza dell’anima – Edgardo viene reclamato da Papa Pio IX che intende crescerlo nel timore di Dio.
Rimasto a secco di premi al termine del Festival d’oltralpe, Rapito ha fatto comunque brillare il cinema italiano nel Palais des Festivals, insieme a Il sol dell’avvenire (Moretti) e La Chimera (Rohrwacher): il nuovo film di Bellocchio è esponente di quel cinema italiano di altissima qualità, animato da un engagement artistico laico, volto a raccontare la storia umana d’Italia – specialmente, la natura imperfetta del potere.
Due mondi, una separazione
Se il rapimento dell’Aldo Moro di Fabrizio Gifuni era motivato dagli ideali estremisti delle Brigate Rosse – gruppo terroristico convinto che lo Stato avrebbe acconsentito a tutto pur di salvare il politico – non si può dire che il rapimento del piccolo Edgardo non sia stato motivato anch’esso da ragioni ideologiche. Lo Stato Pontificio sta assistendo, agonizzante, alla fine del proprio potere sulla penisola: Papa Pio IX (Paolo Pierobon), animato da un radicato antisemitismo, non intende fare sconti che possano nuocere al proprio pontificato; ed è in seno a questo forte posizionamento che quella sera del 23 giugno 1858, Edgardo Mortara, di anni sei, viene prelevato dall’abitazione famigliare di Bologna.
È in questa separazione – incipit del film – che Marco Bellocchio esplicita quella vena drammatica che sarà una costante in tutto il lungometraggio: la colonna sonora imponente, le interpretazioni formidabili degli attori (specialmente Barbara Ronchi nel ruolo della madre di Edgardo), le ambientazioni costruite da luci e ombre; il cineasta piacentino non risparmia alcuna cartuccia per trasmettere l’angoscia della separazione.
Due i termini del conflitto che pone al centro il piccolo Edgardo. Da un lato c’è la famiglia Mortara, di religione ebraica, appartenente al ceto medio: per i Mortara il cristianesimo è un oggetto ignoto, un altro mondo; Salomone (Fausto Russo Alesi), il padre di Edgardo, non sa cosa sia il limbo, né conosce i dogmi che animano l’educazione cristiana. C’è Marianna (Barbara Ronchi) che insegna le preghiere in ebraico ai figli; c’è lo Shabbat e le comunità ebraiche sparse per tutto il mondo. Dall’altro c’è lo Stato Pontificio, l’autorità papale che è a capo della folta gerarchia di sacerdoti, preti, suore, chierichetti. Fra questi due mondi in conflitto, Edgardo Mortara (interpretato dall’enfant prodige Enea Sala) è la vittima malgré lui: a seguito del suo trasferimento presso la Casa dei Catecumeni – istituzione fondata a uso degli ebrei convertiti – il bambino impara a conoscere il cristianesimo, le sue regole e i suoi simboli, nonché la sua lingua istituzionale, il latino. Bellocchio, in questo senso, analizza con cura maniacale tutte le fasi di approssimazione alla religione cristiana e mostra quanto sia difficile comprendere una fede diversa da quella di appartenenza: fondamentale, in questo senso, è la conoscenza della figura di Gesù Cristo da parte di Edgardo, la cui iconografia sconvolge profondamente l’animo del bambino.
Lo sguardo laico di Bellocchio sulle miserie del potere
A seguito della visione di Esterno Notte, si direbbe che Bellocchio continui la sua opera di accusa verso le contraddizioni della Chiesa. Tuttavia – come ha avuto modo di affermare il regista durante la presentazione del film a Cannes – Rapito è un lungometraggio dotato di uno sguardo laico, la cui accusa non è tanto rivolta al Cristianesimo in sé per sé, ma alla cecità degli uomini abbagliati da un dogma vuoto e reazionario. Lo scopo di Bellocchio non è tanto redigere un atto d’accusa contro la Chiesa – come potrebbero pensare i conoscitori della filmografia del regista – ma rievocare una storia rimasta nell’ombra (forse a causa della beatificazione di Pio IX, avvenuta non senza polemiche da parte della comunità ebraica) e narrare gli aspetti più terribili dei drammi umani. L’avanzare inevitabile della storia fagocita individui, poteri, ma regala la speranza di miglioramento alle classi meno abbienti: Papa Pio IX ne è consapevole, e la sua cecità dogmatica del “non possumus” rappresenta l’ultimo bagliore del proprio potere; Edgardo, in questo senso, diviene suo pupillo in quanto simbolo di riaffermazione della potenza pontificia, non in quanto bambino dotato di una straordinaria sensibilità e coscienza di sé.
L’abbagliante splendore del potere viene esplicitato dagli ambienti sontuosi dello Stato Pontificio, nel quale il potere temporale sceglie di arroccarsi: lo sguardo di Bellocchio indugia spesso su elementi dell’iconografia cristiana – le statue dei beati, la rappresentazione di Cristo in Croce – imbevuta di un’intensità spesso e volentieri angosciosa, che sono, insieme ai dogmi e ai precetti religiosi, strumenti di potere nelle mani del Pontefice. Ma accanto agli splendori del medesimo potere, vi sono le miserie di un’Italia che reclama cambiamento: ci sono gli ebrei di tutto il mondo, uniti nella speranza che il Papa possa ritrarre il “non possumus”, e ci sono i fautori del Risorgimento Italiano.
Miserie di una conversione obbligata
In questo contesto tumultuoso, il rapimento di Edgardo, secondo la prospettiva di Bellocchio, possiede necessariamente una doppia valenza: accanto alla natura politica del rapimento – la riaffermazione del potere temporale – vi è il dramma di un nucleo familiare distrutto, ritrovatosi, suo malgrado, a essere vittima dei giochi di potere dell’Italia Risorgimentale. Lungi dall’essere un film in cerca di indignazione, Rapito cela dietro il dramma del piccolo Edgardo la problematicità del dogma religioso e la conversione obbligata del giovane protagonista, la quale concerne non solo la diversa visione del mondo e dell’aldilà, ma anche il dramma di uno sradicamento, dell’abiura delle proprie origini e del sangue famigliare. Il potere del Cristianesimo, secondo Bellocchio, è dato da due elementi fondamentali: da un lato, l’imprescindibilità dei dogmi, che non possono essere posti in predicato; dall’altro, la religione di Cristo – a differenza di quella giudaica – assicura la vita eterna in Paradiso. In questo senso, Rapito è una profonda riflessione sul conflitto di poteri e sulle loro ricadute sugli affetti famigliari, sulla drammaticità delle miserie umane e sull’incompatibilità di visio mundi in perenne contraddizione.

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