Mario Martone ama analizzare la sua Napoli attraverso la lente della Storia e, in particolare, attraverso il prisma di personaggi storici: Giacomo Leopardi in Il giovane favoloso, gli eroi risorgimentali di Noi credevamo e gli intellettuali di Capri-Revolution. Qui Rido Io, presentato allo scorso Festival di Venezia, è il ritratto di Edoardo Scarpetta, attore, commediografo, figura fondamentale per il teatro in dialetto napoletano.
Nei primi anni del ‘900, Scarpetta (Toni Servillo) è all’apice della sua fama: la sua commedia Miseria e nobiltà è un successo, e il personaggio di Felice Sciosciammocca ha scalzato Pulcinella dal pantheon dei personaggi della commedia italiana. Tanto estroverso sul palco quanto metodico e severo nella vita privata, Edoardo Scarpetta semina figli legittimi e illegittimi che vorrebbe inserire nel mondo dello spettacolo. La sua vita, meticolosamente programmata, subisce un contraccolpo quando mette in scena una parodia intitolata Il figlio di Jorio: l’autore dell’opera originale, Gabriele d’Annunzio (Paolo Pierobon), decide di intentargli una causa che durerà tre anni e che rischia di minare reputazione e carriera dell’attore. Nel frattempo, Scarpetta dovrà fare i conti con avversari esterni e interni alla sua stessa famiglia, con le conseguenze della sua vita sessuale e con la sua stessa vanità d’artista.
Qui Rido Io è, in fondo, il biopic di un aristocratico, di un uomo che fa scolpire il motto “Qui rido io” sulla parete della sua magione, Villa La Santarella, per rivendicare un vacuo potere di padre-padrone su quelli che abitano sotto il suo tetto. Ma un aristocratico che vede vacillare un potere che ha sempre dato per scontato: colui che ha soppiantato Pulcinella è destinato a venire soppiantato a sua volta, e a farlo sarà non il vanaglorioso d’Annunzio né i giovani intellettuali di cui cerca in fondo l’appoggio, ma la sua stessa stirpe, i fratelli De Filippo: Eduardo, Titina e Peppino (interpretati dai giovanissimi Alessandro Manna, Marzia Onorato e Salvatore Battista), tre dei numerosi figli illegittimi di Edoardo Scarpetta. In particolare è Eduardo, destinato a diventare uno dei più importanti drammaturghi italiani del Novecento, qui ancora un bambino che, prima dietro le quinte e poi alla luce del palcoscenico, esce dall’ombra del padre per prendersi il suo posto nella Storia.
Scarpetta vive la differenza tra chi è sul palco e chi è fuori come un Charlie Chaplin ante litteram: un uomo che vive una continua contraddizione tra l’artista amato dal pubblico ma sulla via del tramonto, l’uomo vanitoso che fa i conti con la propria mortalità e la maschera buffa che indossa a teatro.
Questo ruolo non poteva trovare interprete migliore di Toni Servillo, che si riconferma per l’ennesima volta l’attore italiano più versatile in circolazione. Buffoneria, pomposità, severità, amarezza, occasionale generosità: Toni Servillo salta da un registro all’altro con naturalezza mostruosa, e senza mai schiacciare il personaggio ma mettendosi anzi al suo servizio.
Questo re della risata si muove nella Napoli fervente della vita culturale e artistica dell’età giolittiana, resa visivamente in modo efficace, merito anche di una ricostruzione storica (scenografie di Giancarlo Muselli e Carlo Rescigno, costumi di Ursula Patzak) forse fin troppo essenziale ma sempre elegante. La Napoli di Qui Rido Io è un palcoscenico, lo sfondo di un dramma in cui la musica la fa da padrona. La sceneggiatura – scritta con Ippolita di Majo – e la regia di Mario Martone sono sempre rigorose, quasi antropologiche. Con tutti i difetti che ne derivano: il suo è un cinema che si prende il suo tempo e osserva con distacco le vicende che racconta, e per questo può a volte stancare e rendere difficile la partecipazione emotiva ai drammi interiori dei suoi personaggi.
Ma i difetti nella narrazione si sorvolano facilmente di fronte all’eleganza della messa in scena, e l’attenzione di Martone per i dettagli e il carisma del suo protagonista bastano da soli a mantenere intatto il fascino di un dramma storico con incursioni nella commedia.
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