Le sequenze automobilistiche possono avere una forza tale da rendere un film iconico o riconducibile a una specifica autovettura. Ciò è evidente in Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976): basterebbero soltanto le inquadrature al neon con Travis Bickle alla guida di un taxi, di notte, con in sottofondo I still can’t sleep di Bernard Hermann, per definire a pieno l’identità del protagonista e concedere al film lo status di pietra miliare. Allo stesso tempo un film può essere ricordato anche solo per un singolo inseguimento, come nel caso della sequenza di dieci minuti di Bullitt (Peter Yates, 1968), apripista del nuovo filone poliziesco della New Hollywood che troverà la sua massima espressione nel film di William Friedkin, Il braccio violento della legge (The French Connection, 1971).

Punto zero (Vanishing Point – Richard C. Sarafian, 1971) oggi è considerato a tutti gli effetti un cult movie proprio per le sue interminabili sequenze automobilistiche, che accompagnano il racconto dal primo fino all’ultimo centimetro della pellicola. Si tratta di un road movie contraddistinto dalla fuga e dall’azione, che parte da un pretesto tanto semplice quanto tenebroso per gli sviluppi successivi: Kowalski (Barry Newman), un reduce del Vietnam con un passato travagliato, lavora per un servizio di trasporto auto e deve consegnare un’automobile da Denver a San Francisco. Le varie forze di polizia degli stati che attraverserà gli daranno la caccia per aver superato i limiti di velocità e non essersi fermato al richiamo degli agenti.

La prima parte di Punto zero rispetta a tutto tondo le aspettative finora createsi: una Dodge Challenger bianca del 1970 sfreccia tra i deserti degli Stati Uniti, la polizia alle calcagna di un misterioso antieroe di cui non comprendiamo le motivazioni. Tutto a un tratto il film cambia e si rivela per quello che è. La musica rock e funk a tema cristiano invade l’atmosfera del racconto, così come la voce dell’afroamericano Super Soul, uno speaker e deejay radiofonico cieco che assume a pieno titolo il ruolo del profeta. E Kowalski, il nostro protagonista senza nome, diventa un moderno messia, un mito dei giorni nostri, le cui gesta vanno seguite e, successivamente, raccontate per ciò che rappresentano.

Pian piano, per mezzo di flashback sparpagliati nel corso della pellicola, riusciamo a racimolare dei pezzi della vita di Kowalski, proviamo a capire cosa l’abbia spinto ad affrontare questa avventura contro il sistema, ma ciò che non sappiamo è infinitamente più grande dei pochi indizi che ci vengono forniti. Essi bastano però a comprendere come Kowalski non abbia nulla da perdere, come il viaggio non sia un mezzo per giungere a una destinazione, bensì il fine. In fondo, il nostro protagonista è un uomo libero da ogni vincolo perché sciolto da ogni legame: ha vissuto una delle guerre più atroci e ingiustificate della storia statunitense, ha rischiato la vita nel tentativo di rendere la sua passione per i motori una professione e ha perso uno dei legami più stretti della sua vita.

Mettendo insieme questi elementi non è difficile supporre come quella del nostro protagonista sia una last ride da neo-noir, che però rischierebbe di perdere di significato se non inserita nella cornice di appartenenza del racconto: è il 1971, sono passati tre anni dal ’68 e da ciò che ne consegue in termini culturali e di rivoluzione sociale. I poliziotti di questo film rappresentano la cultura reazionaria e brutale dei padri dei sessantottini, mettono a disposizione unità su unità, elicotteri e sono pronti a ricorrere a una violenza feroce e razzista, il tutto per fermare un uomo la cui unica colpa è quella di aver superato i limiti di velocità e non essersi fermato al richiamo degli agenti. Kowalski invece, senza parlare, si fa portavoce di una cultura anti-machista (manda fuori strada il volgare autista di una macchina da corsa che lo sfida in un impeto testosteronico) e promotrice delle libertà individuali e della solidarietà. Per lui non è un problema fermarsi e caricare in macchina due autostoppisti rimasti in panne sotto il sole cocente del deserto statunitense d’agosto. Così come non è un problema il fatto che i due uomini siano omosessuali. Diventa un problema il ricorso di uno dei due alla violenza. Illuminante in merito anche la sequenza con la ragazza hipster nuda nel deserto, in cui il male gaze e i canonici ruoli di genere vengono sovvertiti e riscritti.

Punto zero è un film capace di plasmare, sotterraneamente, la storia del cinema, ispirando diverse generazioni di registi, da David Lynch a Quentin Tarantino. Il debito di quest’ultimo nei confronti del film in analisi è esplicito in Grindhouse – A prova di morte (Death Proof, 2007). Un po’ meno esplicito è invece il debito di Lynch, rintracciabile nella regia delle sequenze automobilistiche di Cuore selvaggio (Wild at Heart, 1991) e soprattutto di Strade perdute (Lost Highway, 1997). In merito va inoltre citata una delle poche scene notturne, con una giovanissima Charlotte Rampling, presente soltanto nel cut alternativo del film. L’atmosfera è onirica e dark, sospesa e malinconica, soprattutto per merito delle musiche, molto vicine a quelle di Angelo Badalamenti che vent’anni dopo avrebbero caratterizzato la serie Twin Peaks (1990-1991) e il prequel cinematografico Fuoco cammina con me (Twin Peaks: Fire Walk With Me, 1992). Charlotte Rampling, per via dell’alone di mistero che la caratterizza, potrebbe anche essere considerata una Laura Palmer ante-litteram.

In fondo Punto zero è l’altra faccia di Easy Rider (Dennis Hopper, 1969), quella mistica e speranzosa, in cui emerge la necessità di trovare un odierno Cristo ed elevarlo a simbolo e modello da seguire, un messia pagano che possa guidare idealmente la rivoluzione culturale, politica e ideologica di fine anni ’60. Un racconto atmosferico capace di creare un mito, definito dalle musiche onnipresenti e da personaggi-simbolo di una visione del mondo specifica, trasfigurata dalla spiritualità.

Alessandro Corrao,
Redattore.