Piedi smaltati di rosso calpestano una moquette rosa e soffice, arrivano poi le ciglia finte, quella linea distintiva di eyeliner, il rossetto e i capelli cotonati sorretti da una generosa passata di lacca. Quasi non serve che appaia il titolo del film a ricordarci che si tratta di Priscilla perché la sua iconografia, in quel periodo della sua vita, è fissata in una memoria che trascende il trascorrere del tempo. Come accade per altre donne, protagoniste di recenti monografie sul grande schermo – penso a Jackie Kennedy in Jackie, Marilyn Monroe in Blonde, Lady Diana in Spencer – a precederle è la loro immagine, riconoscibile anche senza il loro volto esposto. É sufficiente un’inquadratura di spalle, un dettaglio a sé. Si sa poi che Sofia Coppola, fine ed empatica osservatrice dell’animo umano, nei dettagli è in grado di trovare una verità, rendendola eloquente senza il bisogno di ricorrere a troppe parole.

Chi fosse realmente la persona dietro quell’immagine, a volte ammirata, altre volte criticata, è la domanda comune posta da questi film. Con Priscilla, Sofia Coppola, basandosi sul memoir del 1985 “Elvis e io” e sui ricordi della stessa Beaulieu – qui anche produttrice esecutiva – non pretende di dare allo spettatore una risposta esaustiva, ma cattura un momento molto preciso e al tempo stesso cruciale della sua vita. Sono memorie personali le lenti attraverso cui abbiamo accesso alla storia. A raccontare quegli anni, la relazione con “Il Re del Rock’n’roll” è una prospettiva soggettiva che non parla di sé ma attraverso la sua protagonista principale.

Assistiamo quindi a un coming-of-age in cui il passaggio dall’innocenza alla consapevolezza avviene sotto il tetto, tanto alto quanto oppressivo, della residenza di Memphis. La sua adolescenza e la sua crescita coincidono con un’illusione romantica destinata a piegarsi sotto il peso della realtà, perché l’Elvis che abbiamo conosciuto con Baz Luhrmann – vessato dall’ingombrante figura del Colonnello e insoddisfatto dalla sua carriera come attore – soffocava a sua volta ogni istinto di crescita di Priscilla, finendo per imprigionarla in una gabbia dorata nella quale lei esisteva e si muoveva solo in ragione della sua volontà.

In questa storia convergono così molti degli elementi che hanno caratterizzato il cinema della regista, da sempre interessata alla ricerca sull’identità – Priscilla si è trovata ad avere una relazione con qualcuno che aveva già una fortissima identità quando lei doveva ancora trovare la sua – e a come questa debba essere scoperta dalle giovani donne, nella maggior parte dei casi, da sole. I pomeriggi infiniti scanditi dall’attesa delle telefonate, dalla noia, dalle tante persone intorno e le poche realmente accanto, tutti elementi che compongono un quadro di solitudine e indifferenza ingiustamente scambiate per lentezza e mancanza di ispirazione. La meditazione sulla solitudine nei film di Sofia Coppola non è sterile ma generosa nei confronti dei suoi personaggi perché non li lascia mai dove li ha trovati. Nello stallo e nel dolore c’è spazio per una crescita personale che non sempre può assumere toni squillanti e canonicamente ingaggianti. Il cambiamento è silenzioso ma il grido di liberazione finale no, per quello c’è Dolly Parton.

La natura della relazione che legava la coppia non era certamente materiale facile da sottoporre al pubblico, ma come non c’è recalcitranza nel ritrarre le storture di un rapporto morboso, oggi ingiustificabile, non manca l’invito a credere nella sincerità con cui è stato vissuto e mai rinnegato. Accantonata la spinta verso il concetto binario di colpa e innocenza, rimane così spazio per le sfumature di una storia avvolta nelle strette morse delle idee di famiglia e femminilità anni ‘50.

Anni in cui siamo catapultati – mantenendo sempre vivo un aggancio alla contemporaneità grazie alle scelte musicali anacronistiche che sono stilema della Coppola – attraverso il production design che si conferma elemento fondamentale, questa volta con una carica pop più misurata rispetto al precedente Marie Antoinette.

Ogni elemento diventa corrispettivo per enfatizzare la soggettività di Priscilla e di come questa si relazioni alla situazione che sta vivendo. I colori cambiano dai toni più scuri della Germania e a quelli più vividi di Graceland, il suono si fa più forte e pieno quando Elvis le è accanto, le inquadrature si allargano per ospitare spazi ad oggi inediti – come il famosissimo ritratto di famiglia dove si enfatizza la posizione predominante, su un neanche troppo metaforico trono, mentre lei le rimane accanto ma seduta per terra. La stessa differenza fisica tra i due attori ne è un perfetto esempio.

Priscilla è un film sussurrato e raffinato, magari non scintillante come i teaser potevano far presagire ma non per questo privo di valore. Suggerito a chi in sala vuole vivere un’esperienza contemplativa.

Silvia Alberti
Silvia Alberti,
Redattrice.