Il regista spagnolo appena cinquantaduenne Alberto Rodríguez, affermatosi a livello internazionale con La isla minima (che nel 2015 ha fatto incetta di premi Goya, mentre Prigione 77 ne ha vinti 5 ma tutti tecnici) torna a riflettere sulla Storia del suo Paese ambientando il film nell’epoca della “Transizione” (tra la fine del Franchismo e l’inizio della democrazia), scegliendo di raccontare la lotta dei prigionieri del Cárcel Modelo di Barcelona che nel 1978 si riunirono nel movimento di liberazione carcerario (il “COPEL”: “Coordinamento dei prigionieri in lotta”), cambiando  significativamente le condizioni dei detenuti nelle carceri spagnole.

Il risultato è una commistione di prison movie, period drama e thriller che potrebbe gestire meglio i tempi narrativi ma che vince nel conciliare caparbiamente il “film sulla fuga” al cinema di denuncia e di impegno civile.

Manuel e Pino all’interno del carcere

I postumi del franchismo

Il titolo originale del film è Modelo 77 – unisce il nome del carcere all’anno in cui si ambientano prevalentemente le vicende – e in Italia con la distribuzione di Movies Inspired diventa Prigione 77: ispirato a una storia vera e tutto ambientato all’interno del carcere di Barcellona tra febbraio 1976 e giugno 1978, il film narra del contabile in erba Manuel (Miguel Herrán: Río de La casa di carta e Christian Varela di Élite) che viene condannato a una pena decisamente eccessiva di 20 anni per appropriazione indebita. La prigione è un vero inferno, sovraffollata, con prigionieri in condizioni di vita disumane e incarcerati solo per la classe sociale d’appartenenza, per il loro credo politico, per l’orientamento sessuale, sorvegliati da guardie che negano quotidianamente i diritti umani tramite la forza bruta e che applicano quel diritto penitenziario tipico delle logiche del regime franchista appena caduto, ma che in carcere regna ancora sovrano. Con l’aiuto del compagno di cella José Pino (Javier Gutiérrez), all’inizio diffidente nei suoi confronti ma “ospite” da molti anni di quel carcere, Manuel diventerà il leader di un movimento di protesta che coinvolgerà altri detenuti – come El Negro (Jesús Carroza), colui che inizialmente passa a Manuel le sigarette di nascosto – e che unirà tutte le prigioni spagnole nella lotta per la libertà e per la legge sull’amnistia, cambiando indelebilmente il diritto penitenziario e di conseguenza la società spagnola.

Nell’impegno civile che il film mette in gioco riveste un ruolo fondamentale l’acquisizione di consapevolezza da parte di Manuel di cosa significa la vita in carcere, cosa comporta e a cosa devono andare incontro i detenuti: tenendosi fortunatamente a distanza dai cliché dei prison movie stereotipici e hollywoodiani (ricordate La fratellanza? Il film del 2017 di Ric Roman Waugh con protagonista Nikolaj Coster-Waldau?), Prigione 77 si “rinchiude” volontariamente nello spazio più claustrofobico che la società abbia mai immaginato (il Modelo di Barcellona ha ospitato prigionieri fino al 2017, ora è accessibile per visite guidate e mostre) per passare in realtà dal “micro” al “macro”, essendo il microcosmo della prigione il simulacro della società e dell’eredità di una dittatura mai compiutamente smantellata.

Infatti, i postumi del franchismo sono ancora ravvisabili nei metodi poco ortodossi adottati dalla polizia penitenziaria, che parla l’unica lingua della sopraffazione e della violenza, ma anche nella strutturazione dello stesso Modelo che si preoccupa di dividere i carcerati in classi sociali, togliendo ai reietti anche quel briciolo di dignità di cui potevano (difficilmente) beneficiare prima che si aprissero le porte dell’inferno carcerario.

Manuel deve affrontare i metodi poco ortodossi della polizia penitenziaria

E’ proprio la dialettica fra “micro” e “macro” che consente al film di discostarsi (ma non troppo) dal filone di prison movie escapisti in cui si inserisce, perché pur sfruttando le regole e le dinamiche del genere carcerario (o del thriller politico), Prigione 77 affronta una verità storica ineludibile senza renderla mai banale o prevedibile, ma anzi sfruttando una narrazione che tiene sempre sulle spine e che lascia anche spazio a piccole sorprese.

L’onestà paga sempre

Al contrario dei suoi protagonisti, Prigione 77 non è un film con mire (cinematograficamente) rivoluzionarie, né nella regia né nella narrazione, eppure si apprezza anche per questo: per la sincerità e l’asciuttezza con cui Rodríguez sceglie di raccontare vicende realmente accadute e che, al contrario, avrebbe potuto gonfiare di retorica e di orpelli narrativi; il regista è molto onesto con il pubblico, pone la regia al mero servizio della narrazione ed enfatizza con morigeratezza i momenti che necessitano della lente d’ingrandimento (come la sequenza in cui Manuel viene percosso dal corridoio umano di guardie, oppure quella in cui i detenuti decidono di recidersi le braccia in segno di protesta).

Le rivolte in carcere per l’amnistia

La storia di detenuti che non vogliono essere comuni prigionieri soffre di qualche annacquatura in fase di scrittura e la molteplicità di personaggi sembra più simile a un modello di narrazione seriale; tuttavia il film ha il grande pregio di fare del proprio spazio – il modelo del titolo – non un recinto soffocante ma, al contrario, un’allegoria per ciò che sta all’esterno di quelle quattro mura: una società coercitiva e repressiva che deve fare i conti con i postumi del franchismo e che, anche grazie ai movimenti di Manuel e compagni, stava intraprendendo i primi timidi passi verso un futuro più democratico e meno sanguinario.

Alberto Faggiotto
Alberto Faggiotto,
Caporedattore.