Giugno, il mese del Pride, è ormai finito, ma le battaglie per i diritti della comunità LGBTQ+ non si fermano e noi, nel nostro piccolo, cerchiamo di fare la nostra parte nel campo che ci riguarda, quello della comunicazione audiovisiva. Proprio questo sembra essere lo sforzo di Pride, una docuserie disponibile sulla piattaforma in streaming Disney+. Composta da 6 puntate, Pride ci fa viaggiare attraverso 60 anni di storia della comunità LGBTQ+, dandoci uno spaccato approfondito e interessante sull’evoluzione della comunità stessa e sulle battaglie per i diritti, la visibilità e la celebrazione delle persone queer. Si parte quindi dagli anni ’50, ovvero il decennio considerato un po’ la “preistoria” del movimento LGBTQ+ fino ad arrivare agli anni 2000, con la lotta per il matrimonio egualitario negli Stati Uniti. La prospettiva adottata è infatti quella strettamente riguardante l’ambito nazionale statunitense e non si spinge ad analizzare la situazione in altri paesi, che siano quelli europei e ancora meno il resto del mondo. 

Il percorso all’interno della comunità è effettuato prevalentemente attraverso le voci di attivistə che vengono intervistati e invitati a raccontare, a partire della loro esperienza, un pezzo di storia e di lotte della comunità. Tuttavia non sempre sono chiari i mezzi formali attraverso cui la serie vuole portare avanti il racconto: l’intervista diretta è prevalente, ma è utilizzata anche la ricostruzione di scene di finzione e l’animazione, e non è chiaro quale sia la funzione di questa mescolanza di mezzi e di stili che non sembrano avere un diretto collegamento con quello che si sta dicendo o raccontando, e piuttosto danno solo una sensazione di caos mal gestito. Questa è una delle pecche che saltano più agli occhi per una docuserie che fornisce una prospettiva davvero interessante sulla comunità. Infatti, decostruendo un senso comune molto radicato, si mostra la progressiva emancipazione delle persone LGBTQ+ non solo come un percorso lineare. Ogni decennio viene analizzato nella specificità del suo contesto, con i suoi aspetti positivi e negativi. Veniamo così a sapere che, per fare un esempio, la Seconda Guerra Mondiale è stata un momento di grande presa di coscienza per la comunità, poiché il movimento in tutti gli Stati Uniti di un grande numero di uomini e donne ha portato molte persone a rendersi conto di non essere le uniche ad essere diverse rispetto alla norma eterosessuale, e che gli anni ’50, oggi universalmente visti come periodo oscurantista per eccellenza, in realtà, prima dell’affermazione del maccartismo, sono stati per la comunità LGBTQ+ un periodo di relativa spensieratezza o comunque non totalmente oscuro, come invece per esempio lo sono stati gli anni ’80, complice l’epidemia di AIDS

Altro elemento di contenuto davvero importante è lo spazio che viene dato al discorso sull’intersezionalità nelle lotte sociali, secondo cui le discriminazioni devono essere studiate nel loro intersecarsi e sovrapporsi, e la serie da spesso la voce ad alcune delle categorie storicamente più marginalizzate anche all’interno della comunità, a partire dalle persone nere e transgender. Proprio a questo proposito una piccola nota sul doppiaggio italiano non può che saltare agli occhi e sorprendere: le donne transgender sono costantemente doppiate da voci maschili, come già successo per il personaggio interpretato dall’attrice trans Laverne Cox nel film Una donna promettente, episodio che ha giustamente scatenato una grossa polemica. Si sperava che all’interno di un prodotto di questo tipo, che tratta proprio di questi temi, un simile errore non dovesse capitare. 

La serie parla estesamente dell’importanza della rappresentazione mediale per promuovere la visibilità e delle esperienze di vita delle persone marginalizzate dalla società, e vuole essere un tassello in più in questo sforzo. In questo caso il limite non è tanto intrinseco al prodotto, quanto nella sua diffusione e porta all’attenzione un elemento importante del panorama televisivo e mediale contemporaneo. La televisione tradizionale basata sul sistema del broadcasting era infatti, nonostante i suoi limiti, un mezzo di diffusione di prodotti per un pubblico ampio e indifferenziato, ed era quindi un luogo di incontro con nuovi prodotti televisivi che il pubblico poteva scoprire. Con la moltiplicazione dei canali televisivi prima e la nascita delle piattaforme di streaming poi, il pubblico si è differenziato e frammentato sempre di più, e per la maggior parte ognuno consuma solo i prodotti audiovisivi pensati e rivolti specificamente per il proprio target: se questo permette che una docuserie radicale come Pride possa essere prodotta, allo stesso tempo il rischio è che si rivolga solo ad un pubblico ben specifico composto dalla comunità LGBTQ+ stessa e alle altre persone in qualche modo già informate su queste tematiche, perdendo così la sua potenziale funzione educativa di massa di cui mai come in questo periodo di polarizzazione e radicalizzazione delle opinioni si avrebbe disperatamente bisogno. 

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Questo articolo è stato scritto da:

Giovanni Atzeni, Redattore