I remake in live-action dei classici Disney sono un oggetto cinematografico curioso e per certi versi paradossale: si attirano da sempre una cattiva nomea e nell’immaginario collettivo appaiono come deboli spettri degli originali, ma allo stesso tempo mantengono sempre un elevato grado di interesse e riscuotono ampi successi al botteghino – il Re Leone di Jon Favreau è il remake di maggior successo della storia del cinema, con un incasso che supera il miliardo e seicento milioni. Segno che la nostalgia è ora più che mai una forza vincente per decretare il successo di simili rilanci e che i classici Disney non smettono mai di affascinare.
Soprattutto per quanto riguarda Pinocchio, una delle storie che conta il maggior numero di adattamenti nella storia del cinema, tra cui proprio il secondo Classico Disney in assoluto dopo Biancaneve e i sette nani. Il caposaldo dell’animazione datato 1940 viene ripreso in questo remake uscito su Disney+ – che arriva tre anni dopo di quello di Matteo Garrone e pochi mesi prima del lungometraggio in stop-motion firmato da Guillermo del Toro – messo nelle mani di Robert Zemeckis, anche co-sceneggiatore con Chris Weitz.
Lasciate dunque da parte gli eterni e poco produttivi dubbi sulla “necessità” di tale operazione e ignorate le inevitabili quanto sterili polemiche sulle scelte di casting: è opportuno riflettere sulla ragion d’essere di questo Pinocchio e sui suoi punti di forza. Perché di punti di forza se ne possono trovare anche qui. A volte.
C’È DI NUOVO UNA STELLA SU NEL CIEL
La magia non è del tutto assente dal remake in salsa Zemeckis: la regia dinamica ad altezza di burattino (e, a volte, di grillo) rende quantomeno coinvolgenti anche le scene in interni più statiche – intere sequenze paiono mutuate dai precedenti incursioni nel cinema d’animazione di Zemeckis, come Polar Express o A Christmas Carol – e si riconosce l’intento di rendere più grandi le ambientazioni del classico originale, di esplorarle con maggior virtuosismo. Scenografie e costumi sorprendono a loro volta anche per il riavvicinamento a un immaginario più riconoscibilmente italiano – per quanto ovviamente artefatto -, e correggono l’estetica mitteleuropea dell’originale, restituendo una maggiore specificità al mondo di Pinocchio.
Lo spettacolo messo in piedi da Zemeckis per la maggior parte funziona e l’intrattenimento per famiglie non annoia mai.
UNO SPETTACOLO DI BURATTINI DAI PIEDI D’ARGILLA
Ma se la regia e il lavoro sulle ambientazioni rendono questo remake piacevole quantomeno sul piano visivo, il meccanismo comincia a incepparsi quando il film vuole dare una ragion d’essere anche alla storia, allo sviluppo narrativo.
La trama ricalca quasi tutti i passaggi dell’originale, il che non sarebbe nulla di strano considerata la sua stessa natura di remake, ma risulta scolastica e pedante quando vorrebbe ricreare passo passo la magia del lungometraggio animato e bizzarramente fuori posto quando aggiunge nuovi passaggi e nuovi personaggi, mai sgradevoli ma senza alcun mordente, di cui il film stesso pare dimenticarsi fino a quando non ritornano di nuovo utili per proseguire la narrazione. Questo appare evidente anche nell’uso delle canzoni: i nuovi orecchiabili brani di Alan Silvestri e Glen Ballard non spiccano mai, e quelle originali appaiono incastrate nella narrazione per contratto, perché devono esserci.
Il remake del secondo classico Disney è un prodotto perfettamente nella media dei rilanci cinematografici Disney: un intrattenimento superficialmente gradevole e visivamente maestoso, di cui resta ben poco a visione conclusa. Anche il pur discutibile Crudelia diretto da Craig Gillespie compiva un passo ulteriore nel riproporre alla contemporaneità l’immaginario disneyano classico e a modo suo era capace di ritagliarsi uno spazio adeguato nel canone, anche solo per i costumi di Jenny Beavan. Questo Pinocchio, invece, non compie mai il passaggio da burattino di legno a bambino vero, e resta intrappolato nella pancia di una balena di cui ci si dimentica in fretta.
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