A BOOK BY J.L. MARCH
Il libro Little Women, inteso come oggetto fisico e artigianale, rilegato in lucida e massiccia pelle rossa, intagliato e cucito con colla e ceralacca dorata da sapienti mani sartoriali (ben ripreso in dettaglio dalla m.d.p. nel suo processo di lavorazione), è il punto di apertura e di chiusura in Piccole donne (2019) di Greta Gerwig. La copertina, la cerniera, il vero abstract iconografico dell’intera storia, il frontespizio visivo che la contiene dalla prima all’ultima pagina (con la famiglia March al completo incorniciata in un rettangolo da una dissolvenza incrociata). Oltre a riflettere la naturale dichiarazione di (in)fedeltà nel trasporre il celebre romanzo di Louisa May Alcott datata 1868 (il titolo resta immutato, la firma d’autrice diventa quella del narratore interno: Jo March), l’indizio chiarisce due elementi a forte impronta metanarrativa.
Il primo: Piccole Donne di Greta Gerwig è una fiaba letteraria pronta a varcare il portale del cinema sotto nuove vesti, attraverso una nuova forma di (ri)appropriazione identitaria del testo originario. E proprio in quanto tale già dall’incipit si fissa in formato-volume autobiografico di antologia favolistica, quasi disneyana. Piena sì di realismo pungente, dolenti malinconie sentimentali, ambizioni sofferte, riscatto da miseria, freddo invernale, malanni e una fame terribilmente pressanti, ma in fondo pur sempre una fiaba (al più, possiamo chiederci quanto davvero a lieto fine).
VECCHIE MANIERE, NUOVI COSTUMI
Senza la vistosa eccedenza e gli anacronismi squillanti del period drama à la Sofia Coppola, siamo catapultati in un cinema di personaggi e ruoli sociali, atmosfere, costumi (di Jacqueline Durran, già Oscar per Orgoglio e pregiudizio (2005) tratto da Jane Austen) e arredi scenografici d’altri tempi. Stretti in un rigido corsetto ai rossori dimenticati per un ballo da timidi debuttanti in società, con le chiavi narrative a custodire segreti in una cassetta di legno nel bosco. Tra protettive e però precarie figure materne pronte a mettere sul piatto generosità in varie forme (una provvidenziale carrozza, un pianoforte, un vestito, un pasto caldo…). In un’ambientazione tardo ottocentesca resa nel tepore melodrammatico di una saga familiare anni ’90 alla Vento di Passioni (1994), ma tutta virata al femminile, richiamando anche il precedente Little Women (1994) di Gillian Armstrong con Winona Ryder.
Un impianto per così dire classicheggiante, che tuttavia occhieggia a giovanissimi spettatori consapevoli e smaliziati e agli sfaccettati ritratti femminili della modernità. Con Greta Gerwig che raduna e rimodella – in un angusto ma caloroso salotto – il nucleo emotivo e lo sprone ad agire delle sorelle March attorno a quattro popolari dive in fieri del cinema contemporaneo (Saoirse Ronan (Jo), Emma Watson (Meg), Florence Pugh (Amy), Eliza Scanlen (Beth), in cortese tenzone col bel tenebroso pretendente Laurie (Timothée Chalamet), che getta scompiglio nelle coppie allestite dal romance. Sorvegliate o ostacolate, le quattro donzelle, in un incontro/scontro attoriale su più generazioni, dalle due grandi madrine che presiedono il racconto in secondo piano (l’amorevole e sfortunata Marmee di Laura Dern e l’irresistibile, scorbutica e altezzosamente snob zia March della veterana Meryl Streep).
GRANDI SCRITTRICI (E REGISTE) CRESCONO
E arriviamo al secondo elemento incarnato nell’oggetto-libro: la dimensione del pubblico, l’attenzione per il destinatario. Tutto il lavoro editoriale – diremmo pre-produttivo – che sta a monte della fruizione, della ricezione dell’opera, e che Piccole Donne illustra con modernissimo puntiglio pratico e teorico.
Più che al mito romantico della scrittrice solitaria e isolata, al solipsismo autobiografico dell’autrice confinata in soffitta a lume di candela, che si brucia scottandosi con i propri scritti (succede letteralmente), Greta Gerwig si affida alla letterarietà del materiale narrativo di partenza per impaginare una riflessione metalinguistica sul lavoro della scrittura (filmica) rispetto alle sue modalità di consumo da parte del lettore (spettatore). Con immagini semplici ma efficaci – occhi che si chiudono e si riaprono, in un dialogo di sonni e risvegli -, i piani temporali del racconto sono raccordati in una stesura episodica e frammentata (anche la cangiante fotografia di Yorick Le Saux alterna luminose tinte autunnali a fredde e grigie tonalità desaturate).
Come le pagine e i capitoli sparsi (dis)ordinatamente sul pavimento da Jo: sono ricordi e flashback stampati per sempre nella memoria, o prime bozze acerbe di un idealismo suscettibile di successive revisioni e variazioni del sé? In ogni caso, spezzoni di vita consegnati a scaglioni, consumati a puntate come si usava nel feuilleton dell’epoca.
Scorrono quindi il vaglio delle parole soppesate, la riscrittura e la correzione del materiale, il giudizio tranchant che incoraggia o ferisce l’ego. Il confronto sulla struttura interna, la coerenza, la rilevanza e il senso ultimo dell’opera, che, ritornando all’io narrante (Jo), arriva a coincidere con un tenace senso di affermazione di identità e indipendenza economica femminile.
Parola chiave: negoziazione. Negoziare sul rischio imprenditoriale del lavoro a penna e calamaio, sulle percentuali di ricavi e royalties del manoscritto, a duro confronto coi patriarchi del quarto potere giornalistico (qualche decennio prima, in Francia, le ambizioni poetiche di Lucien de Rubempré si dissolvono nelle Illusioni perdute (2021) di Xavier Giannoli), significa per Jo March apporre una firma – mettere il nome (femminile) sopra il titolo – per conquistarsi il diritto ad essere autrice della propria esistenza, pur dentro gli schemi imposti da una società ancora retriva.
E così Greta Gerwig, in filigrana cartacea a tutti gli effetti, esprime la volontà di restare “proprietaria” unica del film, custode ultima di una personale poetica. Dentro le maglie ristrette di un sistema industriale e di un genere stavolta necessariamente più mainstream, che nel caso di Piccole donne non è più il libero e prediletto territorio indie, mumblecore e sperimentale di Lady Bird (2017), delle 20th Century Women (2016) di Mike Mills, delle inquiete eroine incarnate in prima persona nel cinema del compagno Noah Baumbach (Frances Ha (2012) e Mistress America, 2015).
Nel passaggio per vedere libro e film finiti, sia Jo che Greta devono giocoforza cedere qualcosa del loro universo esclusivo, per guadagnare una nuova e più matura dimensione autoriale pubblicamente riconosciuta. Tuttavia, Piccole Donne risulta molto meno zuccheroso ed edificante di quanto non sembri a un primo sguardo. Greta Gerwig (di)mostra con invidiabile flessibilità e trasparenza filmica (si veda la sequenza della stazione) la dimensione collettiva e condivisa, la natura contrattuale e relazionale di ogni narrazione, che è sempre, inevitabilmente, un compromesso (la stessa dialettica in gioco nel riadattamento di un classico a favore di una nuova audience).
Emerge il concetto che la storia potrebbe virare da tutt’altra parte, prendendo pieghe e risoluzioni inattese, molto diverse da idee e ideali di partenza. Ma se in ultimo è così com’è, in quella forma definitiva, è perché deve (anche) rispondere alle attese di un pubblico pagante, oggi come allora.
La fine dell’infanzia di Jo March, la maturità artistica di Greta Gerwig, la crescita delle piccole grandi donne – registe e scrittrici – sta tutta nella presa di coscienza del dover porre dei limiti all’assolutismo della propria inderogabile libertà creativa. Non necessariamente per svendersi o sottomettersi a qualcuno, ma per non disperdere nelle secche della chiusura in sè l’originalità di una voce narrante da far arrivare a tutti, il più lontano possibile, a grossi caratteri e in prima pagina.
Questo articolo è stato scritto da:
Scrivi un commento