Una camera segue costantemente un uomo e i suoi silenzi, tra pochi luoghi e tanta oscurità: così si sviluppa Piccole cose come queste, l’ultimo film di Tim Mielants presentato in concorso al Festival di Berlino del 2024.
Tratto dall’omonimo romanzo di Claire Keegan e sceneggiato da Enda Walsh, il lungometraggio racconta dei soprusi perpetrati nelle case Magdalene, istituti religiosi irlandesi nei quali venivano mandate giovani donne con una condotta giudicata “peccaminosa”. Il tema era stato toccato nel 2002 da Peter Mullan con Magdalene, vincitore del Leone d’oro a Venezia, a sua volta ispirato al documentario del 1998 Sex in a cold climate di Steve Humphries. Mielants però ne parla in una forma molto più intimista, accompagnandoci in una storia in cui le parole risultano superflue e le immagini non necessitano di didascalie.
Ambientata nel Natale del 1985 nella Contea di Wexford, la vicenda si focalizza su Bill Furlong (Cillian Murphy), un venditore di carbone che abita con la moglie (Eileen Walsh) e cinque figlie. Ritrovatosi a effettuare una consegna presso il convento locale, assisterà involontariamente agli abusi compiuti dalle suore e vivrà un dissidio interiore ripensando alla sua infanzia.
La recitazione di Murphy (che figura come produttore insieme a Matt Damon e Ben Affleck) rappresenta il fulcro di tutta la narrazione: Bill sospira continuamente, ha l’espressione persa nel vuoto e i pensieri rivolti a un tempo lontano in cui sua madre avrebbe potuto subire la stessa sorte toccata alle ragazze maltrattate. I dialoghi sono volutamente scarni, e lo spettatore deve osservare il protagonista e guardare attraverso i suoi occhi, aspettando l’esito di un conflitto morale che si fa largo passo dopo passo.
Il fantasma dei Natali passati bussa alla porta del carbonaio, trattenendolo in un precario equilibrio tra la sua giovinezza e il suo presente. Dickens torna due volte, sia con Canto di Natale che con David Copperfield, proprio perché probabilmente Piccole cose come queste vuole essere una parabola minimalista, delicata e semplice, pur trattando un argomento tanto doloroso.
La fotografia, curata da Frank van den Eeden, è particolarmente cupa, tra stanze chiaroscure e ambienti notturni, perfettamente in linea con l’angoscia e la sensazione di impotenza vissute dal personaggio principale.
Le spalle e la testa di Bill vengono inquadrate in penombra mentre osserva dalla finestra la sua cittadina, nella quale l’omertà si sostituisce all’onestà e i buoni sentimenti di facciata non corrispondono alle azioni. L’ignoranza e la superficialità regnano in una comunità in cui la chiesa è al vertice e Furlong non riesce ad attenersi al cinismo dal quale è circondato.
Tornato da una giornata di lavoro lava meticolosamente le mani nere, come per pulire una colpa che non è sua, come per scacciare la memoria di un periodo sbiadito ma ancora indelebile.
La superiora Suor Mary (Emily Watson) finge benevolenza con uno sguardo spiritato, illuminata dalla sola luce del camino. La breve apparizione dell’attrice (che ha vinto l’Orso d’argento per questo ruolo) risulta parecchio efficace, quasi una presenza infernale che si impone emanando un senso di inquietudine e di allerta.
Nonostante il dramma affrontato, il regista mantiene un livello di calma illusoria in tutte le sequenze, inducendoci ad attendere i flashback, unici momenti in cui ritroviamo un guizzo imprevisto.
Per tale ragione solo il Bill bambino è in grado di scuotere l’animo dell’adulto, conducendolo in un viaggio sommesso nella sua coscienza.
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