La francese Céline Sciamma è una delle voci registiche più interessanti e peculiari emerse nel cinema europeo d’essai degli ultimi anni. Attenta ai temi del gender free e dell’identità femminile al centro delle rigide (re)pressioni del sociale contemporaneo (Tomboy, 2011, Diamante Nero, 2014), ma in un cinema personale, libero e antiretorico, che tiene a freno didascalismi eccessivi e tempera l’intento politico in un sapiente lirismo formale di poetica spontaneità (Ritratto della giovane in fiamme, 2019), con Petite Maman – in concorso alla Berlinale 2021 e ora in sala grazie a Teodora Film – approda al suo quinto lungometraggio. Tornando ad abitare la dimensione dell’infanzia come zona privilegiata e ricca di epifanie: guscio tenero ma tutt’altro che confortevole e pacificato, anzi critico e ricco di coni d’ombra, lutti, amarezze, quindi prezioso e veritiero (come già nel film animato La mia vita da zucchina (2016), da lei sceneggiato). Dentro cui seguire i percorsi di coscienza verso le soglie del mondo adulto dei suoi mutevoli personaggi.

La protagonista di Petite Maman è la piccola Nelly (Josephine Sanz): una brillante bambina di otto anni che ha appena perso l’adorata nonna materna. Trovandosi per qualche giorno nell’isolata casa di campagna in cui l’anziana viveva, con i genitori che, impegnati a sgombrare gli alloggi della defunta, non sembrano aver tempo per lei, Nelly si distrae gironzolando nel bosco limitrofo. Qui incontra una bambina incredibilmente somigliante a lei, con cui scatta subito la complicità: non tarderà a scoprire – non è uno spoiler – che la coetanea, Marion (Gabrielle Sanz), altri non è che sua madre da bambina, e vive all’altro capo del bosco in una casetta identica alla sua, insieme alla rispettiva madre in cui, nella catena di misteriose corrispondenze genealogiche, Nelly riconosce le fattezze della nonna perduta (Nina Meurisse), cercando una nuova armonia per lo strano nucleo familiare. 

Con due interpreti sorprendenti per credibilità e spontaneità di gesti (le sorelle gemelle Sanz, esordienti di nove anni al tempo delle riprese), scegliendo una struttura circolare (aperta e chiusa da un au revoir), un registro ibrido e volutamente impalpabile, tra fiaba intimista, coming of age lucido e commovente e un velato realismo magico fatto di madeleines del tempo perduto e visioni dell’avenir, senza psicologismi arzigogolati né facili onirismi, Céline Sciamma in appena 72 minuti allestisce una messinscena raffinatissima nella sua essenziale semplicità, priva di orpelli inutilmente ricercati. In un’asciuttezza narrativa e stilistica si affida alla fluidità e alla trasparenza naturale di linguaggio e grammatica cinematografica nella sua forma più basilare. Punteggiando le splendide immagini, immerse nel terso filtro autunnale della DOP Claire Mathon (già bravissima nel lavoro tra corpi e materia pittorica nel Ritratto della giovane in fiamme), con una serie di isotopie cromatiche e figurative: nei costumi (curati personalmente da Sciamma, tra i rossi e blu di maglioni, giacchette e salopette che stagliano le bimbe in mezzo alla natura), negli interni (la carta da parati smaltata o slavata, il mobilio in legno teak, i beige caramellosi e il celeste di armadi e piastrelle), nell’alternanza di luci tenui o nette di grande forza evocativa (il teporoso nitore diurno che inonda la casa e il bosco, il blu cupo che bagna la notte portando a galla paure e confessioni). E in particolare nella forma-simbolo del triangolo, che delinea e percorre in ogni senso i vertici cardine dello scheletro narrativo (nonna – madre – figlia), e si rimodula, in scala minore e maggiore, nella casetta giocattolo appesa in cameretta, nel profilo della capanna di rami e bastoni, nella piramide in mezzo al lago raggiunta in canotto da Nelly e Marion, nel climax avventuroso che ricorda la fuga degli adolescenti di Un’estate da giganti (Les Géants, 2011) di Bouli Lanners. 

Il gioco di specchi e di doppi che si viene a creare è, innanzitutto, un ripiegamento all’interno delle rifrazioni del sé fluttuanti nello spazio e nel tempo, grazie al lavoro del cinema. Nelly, in un’evidente rivisitazione fanciullesca della malinconica rêverie di Victor Sjöström ne Il posto delle fragole (1957) di Bergman, in una scena osserva se stessa stando simultaneamente fuori e dentro al quadro: l’inquadratura che sembra a tutti gli effetti una soggettiva di Nelly, appoggiata sulla soglia d’ingresso, affacciata sulla stanza da vuota, rivela subito dopo, in perfetta continuità e senza stacchi, l’oggettiva presenza della bambina dentro la stessa stanza. Dialettica che non fa che rinforzare un’altra opposizione centrale del film, quella tra pieno e vuoto (progressivamente dismessa e sfrondata di oggetti la casa di Nelly, ancora viva, arredata e abitabile quella di Marion, con reciproco travaso di affetti condivisi tra i due spazi). 

È una precisa strategia di straniamento del punto di vista, che Sciamma utilizza più volte, con sottile e fulminante efficacia. Giocando continuamente tra figura e sfondo con dei jump-cut invisibili, per rimarcare la specularità della messinscena anche nello slittamento spaziale: pensiamo al momento in cui l’inquadratura stringe su Nelly, seduta in cucina nella casa della nuova amichetta, quando, senza soluzione di continuità, compare un braccio maschile ai margini del quadro, che appoggia un piatto sul tavolo: senza accorgercene, quando si allarga al campo totale, siamo tornati a casa di Nelly che cena insieme al padre (Stéphane Varupenne). Il montaggio, usato con altrettanta perizia, serve invece alla concisione dei salti temporali: una sorta di teletrasporto visivo che, con un clic istantaneo che spegne un’abat-jour, realizza l’impaziente desiderio infantile di coricarsi la notte per balzare subito alle piccole grandi avventure del giorno dopo («voglio dormire per arrivare subito a domani»). 

Al riparo del calore di un rifugio domestico doppio, accogliente e protettivo ma anche freddamente perturbante (la réminiscence dell’ombra della pantera acquattata in fondo al letto), Petite Maman racconta una maternità problematica e coraggiosa, il potere sconfinato dell’immaginazione infantile che si scontra per la prima volta con la tragica finitezza umana, con la nuda, ineludibile verità della Morte. Un’elaborazione del lutto che deve accogliere i giochi pericolosi dei grandi, le paure profonde e le consapevolezze dolorose della vita, non più attenuate e nascoste dietro edificanti storielle della buonanotte per bambini. 

I veri fantasmi dell’infanzia e del materno femminile, affettuosamente convocati da Céline Sciamma, sottratti all’oblio della rimozione, delle mancanze e dimenticanze genitoriali, riportati da bambine empatiche, sensitive e incredibilmente mature all’attenzione di adulti che hanno smesso di ascoltare e prendersene cura, nulla hanno in comune con quelli che infestano la ghost story tradizionale di case nel bosco, doppi oscuri e others intrusivi. La loro reale consistenza riguarda in Petite Maman la coscienza intima e personale, gli spettri delle paure e delle colpe materializzate dall’inconscio, le spie di una latente sindrome dell’abbandono. Di loro si può dire la stessa cosa che, in una prefazione (Racconti di fantasmi, Einaudi, 2015), spiegava Virginia Woolf a proposito dei fantasmi di Henry James (uno dei numi tutelari letterari di Sciamma, il cui spirito aleggia dal portrait of a lady del film precedente giungendo fino a Petite Maman): “hanno [i fantasmi] le loro origini dentro di noi. Sono presenti ogni qual volta l’emozione supera le nostre capacità espressive; ogni qual volta nell’ordinario emerge l’alone dello straordinario. Le perplessità lasciate in sospeso, i terrori persistenti: queste sono le emozioni che James coglie, traduce in immagini, rende accettabili e vivibili” […] Se analizziamo il racconto al chiarore della lampada e in tutta tranquillità, possiamo osservare quanta abilità riveli la narrazione, come ogni frase sia tesa, ogni immagine piena, come il mondo interno acquisti intensità dalla solidità di quello esterno, come il bello e l’indegno, intrecciati insieme, si insinuino strisciando fin nel profondo”. Non potremmo trovare parole migliori e definizioni più calzanti per cogliere la forma e lo spirito del magnifico piccolo film di Céline Sciamma. 

Segnaliamo, per chi fosse interessato ad approfondire il cinema di Céline Sciamma, il saggio di recente uscita ARCHITETTURE DEL DESIDERIO – Il cinema di Céline Sciamma, a cura di Federica Fabbiani e Chiara Zanini, edito da Asterisco Edizioni.  

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Daniele Badella, Redattore