Corpi e spazi

Il cinema è un’arte di corpi, così come degli spazi in cui essi si muovono; quelli stretti di una camera da letto o quelli più grandi di una città. Entrambi gli spazi possono essere ‘vissuti’ dai corpi, che in essi si possono perdere e ritrovare, come il ‘fantasma’ nelle stanze di A Ghost Story (Lowery, 2017) oppure le due anime perse di Johansson e Murray nella Tokyo di Lost in Translation (Sofia Coppola, 2003). Ma i corpi possono anche attraversare gli spazi a tutta velocità, fendendo le traiettorie della città: pensiamo alla Los Angeles su cui sfreccia Keanu Reeves in Speed (de Bont, 1994) o quella al neon digitale di Collateral (Mann, 2004), che con l’inseguimento fra Foxx e Cruise diviene un labirinto di gioco al gatto e topo. È interessante notare il lavoro, ogni volta diverso, compiuto dai registi sugli spazi delle metropoli, perché ogni sguardo cinematografico risemantizza quei luoghi, quegli edifici e di conseguenza il rapporto tra i corpi e gli ambienti circostanti. Pensando alla già citata capitale del Sol Levante ci vengono in aiuto sterminati esempi, partendo dal minimalismo formale di Viaggio a Tokyo (Ozu, 1953), arrivando sino alla Tokyo ultra-kitsch delle vignette adattate su grande schermo da Sion Sono in Tokyo Tribe (2014).

Perfect Days di Wim Wenders – Premio della Giuria ecumenica a Cannes 76 e ora con sguardo agli Oscar 2024 – sembra andare proprio in questa direzione: il film raggiunge uno dei più alti connubi fra corpi e spazi grazie a un elogio del quotidiano molto vicino a quello di Paterson (Jarmush, 2016); qui, infatti, l’umile Hirayama (Kōji Yakusho: migliore interpretazione maschile sempre a Cannes) nella sua incessante routine vive Tokyo, respira Tokyo, addirittura ci gioca (il misterioso giocatore di tris). Gli spazi della città, attraversati con passo quieto dall’addetto alle pulizie dei bagni pubblici con in sottofondo i Rolling Stones o Patti Smith, altro non sono che gli stessi abitanti di Tokyo, la sua popolazione, la sua quotidianità e la sua routine, appunto. Per questo Wenders non poteva che andare a recuperare Ozu e il suo cinema di spazi, con ampio uso del “tatami shot” e con la sua densità d’inquadratura riempita dai corpi in assoluto connubio con l’ambiente circostante.

Hirayama (Kōji Yakusho)

Un cinema in cui gli spazi sono egualmente protagonisti, perché i corpi agiscono l’ambiente e, viceversa, l’ambiente agisce sui corpi, dove ogni inquadratura – a cui la fotografia di Franz Lustig dona bellezza abbacinante – e tutte le scelte di narrazione sono intrinsecamente legate all’ambiente in cui si trova Hirayama, sia esso la camera da letto dai pavimenti scricchiolanti in cui riposa la nipote (ri)comparsa dal nulla, il bagno pubblico dove scambiare gesti d’umanità con sconosciuti, il minivan dove ascoltare all’alba gli Animals o Lou Reed, la libreria che vende principalmente romanzi di emergenti giapponesi o di Patricia Highsmith, ma anche lo skyline di Tokyo percorso ogni giorno da Hirayama con piglio tranquillo e pacato, quasi contemplativo.

Il tenero rapporto tra Hirayama e Niko (Arisa Nakano)

Guarda caso è nella contemplazione dell’interazione fra corpi e ambiente (il gioco di ombre sulle vie di Tokyo) che Hirayama capisce di dover fare i conti anche con le ombre del suo inconscio, i ricordi che sogna ogni notte ma che cerca di tacere, quella parte di personalità a cui basta un piccolo imprevisto (una fonte di luce che proietti il corpo a terra) per emergere flebile, ma che più si riempie di problemi più diventa scura: più gli ostacoli sedimentano e più il nero aumenta. Così personaggi e spazi si completano.

Un film profondamente umanista

Perfect Days, prim’ancora di essere una sinfonia umanista (o in virtù di ciò?), è Tokyo, le sue strade, le sue torri luminescenti, i suoi cittadini, i suoi tramonti, ogni suo anfratto. Il legame viscerale tra la grande metropoli e un semplice addetto alle pulizie cresce ogni giorno grazie a semplici gesti; ma se i giorni perfetti di Hirayama dovessero affrontare l’inaspettato? I gesti si spezzerebbero e Hirayama si troverebbe un po’ smarrito, con l’ombra sempre più scura sul pavimento. Non dimentichiamo che Tokyo è i suoi abitanti: così come si è smarrito, ora Hirayama può contare su altri piccoli gesti per capire di più sé stesso e le altre persone. È infatti grazie alla tenera nipote Niko (Arisa Nakano), alla timida Aya (Aoi Yamada), o al tale sconosciuto con cui si diverte sotto al ponte che il taciturno pulitore di bagni riuscirà a ritrovare la strada, probabilmente solo quella temporanea, ma questa volta ben conscio che, nonostante i giorni perfetti siano un’illusione, affrontando il quotidiano con umiltà e dignità riuscirà sempre ad andare avanti. Il succo del film sta tutto in quel finale, fra i più belli visti al cinema negli ultimi anni, con il volto di Yakusho tristemente speranzoso, o felicemente triste; in ogni caso pronto ad affrontare il futuro e non più preda dei fantasmi del passato.

Hirayama gioca anche con Tokyo, persino a tris

Wenders sceglie di rendere omaggio, a modo suo, al più grande regista nipponico della storia, recuperando quel cinema dove la tecnica ‘invisibile’ cela in realtà una coerenza spaziale senza eguali, non solo per il 4:3, le inquadrature statiche, il rigore formale o la semplicità dei gesti, ma per come tutto l’insieme contribuisce a trasformare la vita quotidiana in poesia cinematografica pregna d’umanismo. Una poesia che vorresti non finisse mai, che nascondesse sempre una strofa in più, perché una vita filmata così vale la pena d’essere vissuta ogni secondo.

Alberto Faggiotto
Alberto Faggiotto,
Caporedattore.