In poco più di dieci anni la casa di produzione statunitense A24 ha scalato classifiche, battuto record, vinto premi, facendosi conoscere in tutto il mondo grazie all’operazione di branding cinéphile capace comunque di abbracciare il grande pubblico. Progetto nato come indipendente, elitario (nel senso buono del termine), tana calda e accogliente per i progetti più arthouse, alternativa alle grandi major di Hollywood, in pratica un Nanni Moretti degli Studios americani (almeno il Nanni degli anni ‘80). Oggi le cose sono cambiate, ma va dato a Cesare quel che è di Cesare, perché A24 non ha fatto tutto a colpo sicuro, ha rischiato, ha scommesso su giovani talenti dando loro la possibilità di esprimersi: Greta Gerwig (Lady Bird), Robert Eggers (The Witch), Ari Aster (Hereditary), Bo Burnham (Eighth Grade) e via dicendo. Un rischio che ha poi trasformato in arma a suo vantaggio, elemento di cui fregiarsi: è un esordio anche Past Lives, quello della regista sudcoreana naturalizzata canadese Celine Song. Il film ha iniziato la corsa dei premi con l’anteprima mondiale al Sundance Film Festival del 2023, è passato per le cinque candidature ai Golden Globe (rimanendo a secco) ed è ora al rush finale con le due candidature alla 96ª edizione dei premi Oscar (miglior film e miglior sceneggiatura originale, scopriremo l’esito il prossimo 10 marzo). Past Lives si è presentato nelle sale italiane con un pedigree di tutto rispetto, ma invece che dare un giudizio rilancerei con un’altra domanda: in virtù del ricco palmarès e tenendo conto che al cinema la stessa storia può essere raccontata migliaia di volte in modi diversi, da dove nasce il clamore attorno a un film dalla trama trita e ritrita e trasposta con un sentimentalismo che sfiora l’adolescenziale? Scopriamo le carte sin da subito: il film di Song non è affatto un brutto film, esistono film semplici e adolescenziali (nell’approccio, non nella trama) di discreta fattura, e questo è sicuramente fra quelli. Ma l’interrogativo appena sollevato credo trovi ragion d’essere in questioni, se non qualitative, quantomeno industriali.

Nora (Greta Lee) e Hae Sung (Teo Yoo)

Le vite passate

In Corea del Sud, a Seoul, gli amici d’infanzia dodicenni Hae Sung (Teo Yoo) e Nora (Greta Lee) devono separarsi a causa del trasferimento di Nora a Toronto. Dodici anni dopo riescono a rimettersi in contatto, mentre dopo un ulteriore salto di altri dodici anni decidono di riunirsi per una settimana, quando Hae Sung vola a New York per trovare Nora, ormai sposata con Arthur (John Magaro). La storia è pregna di autobiografia, traendo ispirazione dalla vita di Song e dal suo trasferimento in Ontario proprio alla stessa età di Nora. Così facendo la regista tocca (senza mai esagerare) temi ricorrenti ma sempre attuali: le decisioni, i cambiamenti e gli amori impossibili. L’amore rimpianto, quello se solo…, l’amore what if… lo conosciamo bene (sia personalmente, che nel cinema), e qui prende il nome di “In-yun”, il cui significato è fornito direttamente da Lucky Red: “una parola che in coreano significa “destino”, ma si riferisce esclusivamente ai rapporti tra le persone. È un In-Yun persino quando due sconosciuti camminano per strada e i loro vestiti si sfiorano appena. Perché significa che c’è stato qualcosa tra loro nelle vite passate”. Detto ciò, Past Lives procede come una linea retta e in modo piuttosto furbetto: le canzoni arrivano sempre al momento giusto riflettendo i pensieri dei personaggi (That’s no way to Say goodbye di Leonard Cohen, You know me more than i know di John cale), il confronto fra America e Corea è lasciato soltanto a due o tre battute dei personaggi (da bambina Nora dirà scherzando “Vado via perché i coreani non vincono il premio Nobel per la letteratura”, mentre una volta in America parlerà di Hae Sung dicendo che lui “ha una vita normale, un lavoro normale, vive ancora con i genitori, cose così coreane”), e tutto sommato l’amore impossibile cambia vesti e nomi ma costituisce un gimmick usato spesso nel cinema, come il “Kataware-doki”, l’attimo del crepuscolo diventato popolare in tutto il mondo grazie a Your Name. (Shinkai, 2016): una soluzione efficace ma rischiosa, perché il gimmick è un espediente, un artificio, e come tale a rischio approssimazione; infatti a convincere di meno è proprio quest’aura di semplicismo che aleggia per tutto Past Lives, perché a dir la verità non c’è tanto altro da dire riguardo al film in sé, se non rimarcando la bellezza dell’avvolgente tappeto sonoro a cura di due membri dei Grizzly Bear (Christopher Bear e Daniel Rossen) e le ottime interpretazioni dei due protagonisti. In sostanza, Past Lives non ha quello che viene definito il significato ‘denso’ di un film, le sue immagini, le sue musiche e le sue inquadrature sono autoreferenziali, non rimandano a un significato ‘altro’. Ma la densità di un film non è un obbligo (le emozioni scaturiscono anche dalla semplice narrazione superficiale), né tantomeno un cartellino da timbrare. Infatti, come detto, Past Lives è ben lungi da essere un brutto film. Però. C’è un però.

Nora saluta Hae Sung e lascia Seoul

La crisi del critico

Però, prendiamo un altro film in concorso a questa edizione degli Oscar, The Holdovers di Alexander Payne, per certi versi simile a Past Lives, entrambi film dalle storie molto semplici con al centro i sentimenti umani, a volte in conflitto, altre riconcilia(n)ti. The Holdovers vale la pena vederlo soltanto per come cuce gran parte del minutaggio su Paul Giamatti, utilizzando lo strabismo, la fisicità, e il tanfo cutaneo del suo personaggio come caratterizzazione forte, veicolo emotivo e narrativo del film. Anche visivamente c’è particolare ricercatezza, perché Payne opta per la grana anni ‘70 al fine di ricordare l’estetica del periodo in cui è ambientata la storia. Bastano due cose di numero per rendere unico un film, per dargli il quid che lo distingua dalla norma, poi non deve interessare quanto si discosti, basta che lo faccia. E qui arriviamo a Past Lives. Il film di Song mette in crisi la critica cinematografica non per la difficoltà d’interpretazione, ma proprio per l’atto critico in sé. Come approcciare criticamente un film ben fatto che al contempo, però, si perde nel mare magnum dell’anonimia di film simili? È chiaro che dal momento che una storia esiste e viene narrata, può arrivare dritta al cuore di alcuni spettatori e meno a quello di altri. È così che sono fatti i nostri sentimenti. Quindi, come criticare Past Lives? Viene in nostro aiuto il confronto con The Holdovers, perché ciò che manca al primo è proprio quel quid. I personaggi non spiccano per caratterizzazione o approfondimento, la storia procede lineare, forse troppo, con un finale prevedibile sin dal minuto dieci, le sequenze sono ben scandite e i dialoghi scorrono tutto sommato lisci. L’In-yun, in questo contesto, piuttosto che donare profondità al film appare come un gimmick, appunto, un mero espediente col compito di tematizzare la storia e donarle una piccola apparenza di sospensione e di mistero chiaroscurale. In sostanza, Past Lives non ha nulla che lo distingua dai film che escono ogni anno dal Sundance Film Festival, né spicca per qualche particolare qualità.

Gli amici d’infanzia si rincontrano dopo 24 anni, ma intanto Nora si è sposata con Arthur (John Magaro)

Un altro paragone possiamo farlo con Ritorno a Seoul del regista franco cambogiano Davy Chou, perché la parabola della venticinquenne Freddie che dopo molti anni torna dalla Francia in Corea del Sud, sebbene narrativamente ‘opposta’ a quella di Nora, è in realtà sua gemella. In entrambi c’è la nostalgia per un Paese lontano ma così vicino e familiare, le protagoniste devono fare i conti con il loro passato, le loro decisioni, i loro cambiamenti, e soprattutto in entrambi c’è la dicotomia Corea-Occidente. In Ritorno a Seoul, tuttavia, oltre a una maggiore raffinatezza visiva (i colori al neon della capitale non si dimenticano facilmente), Freddie era inafferrabile, irrequieta, impulsiva, con una maschera di cera pian piano sciolta dal ritorno nel Paese natale. Un film che partiva dalla ricerca dei genitori biologici per arrivare al piano “denso” delle barriere da abbattere (linguistica, memoriale ed emotiva). Un film speculare a Past Lives ma che sfugge alla programmaticità di quest’ultimo, e soprattutto con la variazione rispetto allo standard, vale a dire il lavoro sullo sguardo magnetico di Freddie e sui suoi comportamenti, sulla fotografia e sul livello denso della narrazione. Past Lives ricorda anche un altro esordio alla regia, Causeway di Lila Neugebauer, guarda caso in concorso alla notte degli Oscar lo scorso anno e sempre prodotto da A24 (con risultati decisamente inferiori). L’ennesimo film-fotocopia che sfugge alla definizione del critico e senza alcun quid che ti permetta di distinguerlo dai suoi cloni. Una storia semplice, raccontata bene (circa), ma che porta alla stessa domanda: perché proprio quel film? Perché proprio Past Lives? Da dove nasce l’exploit del suo palmarès e la conseguente rilevanza di cui, anche inconsciamente, lo si investe già in partenza? Per rispondere dobbiamo tornare al cappello introduttivo su A24, perché la soluzione sta lì. A24 è ormai una casa di produzione lontana dall’essere considerata l’outsider di Hollywood, è pienamente inserita nel contesto non soltanto dell’Academy, ma mondiale. Con Everything Everywhere All at Once ha fatto piazza pulita agli Oscar del 2023 (sì, gli stessi anche di The Whale, sempre targato A24, che ha portato a casa altre due statuette), insomma, i tempi in cui l’azienda era definibile la mosca bianca del mondo produttivo made in USA sono un ricordo remoto. Viene quindi il dubbio che a volte A24 non prema su questo processo di labeling e sull’etichetta di casa cinéphile, e che di tanto in tanto il gioco del regista esordiente, forse, ne approfitti un pochettino (e viceversa). Sono supposizioni, perché Past Lives resta un bel film, uguale a tanti altri, ma comunque godibile e ben fatto. Però la domanda ci tormenterà a lungo, non se ne andrà, come un tarlo ci divorerà la mente: fra tutti, perché proprio lui?

Alberto Faggiotto
Alberto Faggiotto,
Caporedattore.