Nelle acque di una Posillipo del 1950 nasce Parthenope (Celeste Dalla Porta): bella, libera, errante e al contempo statica. Paolo Sorrentino decide di raccontare ancora la sua città, questa volta attraverso una figura che si fa metafora del mito, che abbraccia a sua maniera la leggenda, che impara a vedere e a essere vista. 

Sorrentino mette insieme tanti tasselli apparentemente divergenti, che in realtà si intersecano mantenendo la propria autonomia. La struttura del film riflette la stessa Napoli, piena di tutto e capace di accordare le diversità in un unicum vivido e pittoresco.

Chi è Parthenope davvero? Studentessa modello, affascinante ammaliatrice involontaria e volontaria, aspirante attrice, ferisce profondamente con le sue risposte sempre pronte e scorge teneramente ogni evento, come se provasse una segreta misericordia. 

L’aura che emana pone in secondo piano la trama, l’interesse per lei ci costringe a volerla conoscere, a voler svelare le sue riflessioni mai rivelate. “A cosa stai pensando?” è una delle domande che torna più frequentemente, un quesito lasciato sempre in sospeso, perché Parthenope è un mistero, ci sfugge e ci intriga, proprio come il miracolo di San Gennaro. L’unico che riesce a percepire il lato più umano di lei è il professor Marotta, al quale Silvio Orlando conferisce una grande autenticità.

Il doppio si fa spazio in ogni scena, il dualismo di Napoli determina la sceneggiatura, ne caratterizza ogni contorno. I tipi umani sullo sfondo della narrazione sono rappresentativi di questo concetto, basti pensare alla diva Greta Cool (Luisa Ranieri) che insulta la sua città definendo gli abitanti “un popolo di disgraziati” e poi ricorda con malinconia “gli amori poveri” o al vescovo Tesorone (Peppe Lanzetta) che unisce il sacro e il profano e sottolinea che “alla fine della vita resterà solo l’ironia”

Parthenope è un film sulla giovinezza, che non si accontenta della sua durata e che utilizza l’amore come pretesto di sopravvivenza. È sbagliato confondere, come fa il fratello Raimondo (Daniele Rienzo), “l’irrilevante con il decisivo”, non si devono cogliere tutte le sfumature, bisogna attendere e trattenere ogni istante fissandolo, cristallizzandolo. Per tale ragione John Cheever (Gary Oldman) sceglie di non trascorrere la serata con la protagonista, per non rubarle quel momento che non tornerà più. E allo stesso modo il costume contemplato da Sandrino (Dario Aita) resta sempre ad asciugare al sole, mentre il mondo cambia, mentre il tempo passa, mentre ci si accorge che “era già tutto previsto”.

“È lei che fa impazzire la città: è lei che la fa languire ed impallidire di amore: è lei che la fa contorcere di passione nelle giornate violente di agosto”, guardando il lungometraggio di Sorrentino mi sono tornate in mente queste parole di Matilde Serao tratte da Leggende napoletane, in cui viene raccontata la storia della mitologica sirena. La bellezza di Parthenope non stride con le brutture che la circondano, lei le stringe a sé, le culla in un disperato moto di ammirazione. La popolazione di Napoli, in risposta, la osserva incantata e la saluta da lontano mentre si muove sul pelo dell’acqua con una canoa.

Le contraddizioni del personaggio non smettono mai di stupire, proprio come quelle della città: i panieri incantati, i tappeti sbattuti, i fuochi d’artificio, i sobborghi, le mazzette lasciate nelle mani dei bambini. Riempie gli occhi e lascia vivere tutti in una nostalgia perpetua, che non si può placare in quanto tessuto e forma viva. Perfino quando la ragazza si fa donna (interpretata da una ineccepibile Stefania Sandrelli) la meraviglia continua a esistere, fino all’ultima sequenza. 

D’altronde “Dio non ama il mare”, come non ama Napoli, o forse la ama troppo.

Maria Cagnazzo,
Redattrice.