Opus – Venera la tua stella è l’ultima opera cinematografica di produzione di A24, che conferma ancora una volta la capacità della casa di distribuzione di dare spazio a visioni autoriali interessanti e complesse.
Il film, uscito nelle sale il 27 marzo 2025, è anche la prima opera dell’anno distribuita da IWonder Pictures, che grazie a un accordo stipulato con A24 porterà ogni loro singola distribuzione internazionale sul grande schermo in Italia, donando a noi spettatori un’accessibilità più immediata e sicura a titoli più particolari che magari avrebbero dovuto fare a gomitate per potersi permettere una distribuzione theatrical. Sulla scia delle vittorie di Anora, il cinema indipendente e creativamente fiorente ha la via spianata per il resto del 2025.
Il soggetto di Opus – Venera la tua stella è di Mark Anthony Green, che al suo debutto alla regia offre una riflessione audace sul culto delle celebrità e sull’ossessione per la perfezione artistica. Il film narra il ritorno sulle scene di Alfred Moretti (interpretato da John Malkovich), un’icona musicale che, dopo decenni di assenza, annuncia un nuovo album, attirando l’attenzione di una giovane giornalista irrealizzata di nome Ariel Ecton (Ayo Edebiri).
Green, con una carriera come scrittore e giornalista per GQ alle spalle, attinge alle proprie esperienze nel mondo del giornalismo musicale per costruire un racconto che esplora le dinamiche tra artisti, media e pubblico. È anche grazie alle sue connessioni con il mondo della musica contemporanea americana che il regista riesce a inserire due brevissimi cameo di celebrità note al grande pubblico come Lil Nas X e Lenny Kravitz, oltre alle varie citazioni alla cultura pop soprattutto degli anni settanta.
Tutte personalità assolutamente non fuori luogo, perché è di culto di celebrità affermate che si parla e se ne critica un sistema che ci coinvolge tutti: dal basso (la platea, rappresentata da titoli di testa semplici, ma d’impatto) all’alto (la celebrità, rappresentata da questa figura mistica dalle abitudini decisamente bizzarre). Un vero proprio schema a piramide che si pone come analogia del culto e, più nel particolare, della setta.
Opus – Venera la tua stella perde però il suo iniziale splendore – accompagnato dalla colonna sonora firmata Nile Rodgers (ex membro dei Chic) – venendo ben presto soffocato sotto la marea di film che lo hanno preceduto negli ultimi anni. Il regista, a sua detta, ha impiegato più di sei anni a sviluppare la sceneggiatura e a trovare il produttore adeguato, facendoci chiedere – visto il risultato parecchio mediocre – se non sia solamente una scusa per giustificare il fatto che non si possa accusare di riciclaggio di idee. Inutile fare finta che questo film non sia la copia dei vari spunti alla base di The Menu, magari con l’aggiunta di qualche pantalone a zampa di elefante.
Si potrebbe persino accettare il riciclaggio di idee (alla fine un Midsommar andava anche bene rivisitarlo nell’America contemporanea), ma quel che ne rimane sono ossa o poco più: Opus – Venera la tua stella è purtroppo insipido anche dal punto di vista intrattenitivo. Non porta nulla di nuovo, e si esce dalla proiezione con la sensazione di essere gli stessi di quando si era entrati.
Gli si può quasi riconoscere, al contrario, la difficoltà nell’individuare il protagonista dell’opera: è Alfred Moretti, come figura al centro di tutto e cima della piramide, oppure è Ariel, giovane giornalista in cui ci identifichiamo come spettatori in quanto realista e unica fonte di volontà critica e sociale?
O ancora: è l’attore John Malkovich, auto-citazionista e auto-critico nella raccolta della semina archetipica fatta con Essere John Malkovich nel lontano 1999, oppure Ayo Edebiri, stella in ascesa nel panorama hollywoodiano che si prende il tempo del film per mettersi in guardia dal futuro che le aspetta come attrice?
È proprio in questa dicotomia di dubbi che sorge il senso della narrazione. Chi è il vero protagonista e, di conseguenza, chi è il vero colpevole nel momento in cui il culto porta all’espansione del potere della persona sbagliata? Ha più colpe l’idolo o ciò che lo definisce tale? Questa è la riflessione che fa nascere nello sguardo finale di Ayo Edebiri il regista Mark Anthony Green, in uno scambio di ruoli finale che riflette una società irrimediabilmente ipocrita e arrivista.
Un tema ipoteticamente interessante, ma mai veramente approfondito in maniera innovativa (e pensare che il regista ha scritto trecento pagine e più di “libro blu” per comprenderne le dinamiche…) in un’opera prima che non fa che essere utile a una cosa sola: a ricordarci non tanto quali sono i film da non fare, ma piuttosto come non farli. È solo un tentativo di ricalcare un modello stilistico che ormai ha già fatto il suo corso e che ha bisogno di scavare nell’animo dei registi – di questi tempi d’intelligenza artificiale più che mai – per trovare quel qualcosa che ce ne faccia uscire spettatori cambiati.

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