Se ad oggi il cinema horror a sfondo demoniaco è pieno di citazioni bibliche, tentativi di portare in vita l’anticristo, strani rituali con candele e pugnali e reiterazioni continue del 666, il merito non va tanto a quel L’esorcista che tanto ha fatto scuola, quanto piuttosto a un film sicuramente conosciuto agli appassionati ma – inspiegabilmente – molto meno al grande pubblico: Omen – Il presagio. Pellicola del 1976 diretta da Richard Donner e sceneggiata da David Seltzer facilmente ascrivibile non solo allo stato di cult ma, senza nemmeno troppa fatica, anche a quello di capolavoro (per lo meno del genere). Un film capace di prendere quanto di buono fatto dal genere in precedenza, soprattutto sia dalla già citata pellicola di Friedkin ma anche da Rosemary’s Baby di Roman Polanski, di cui questo film funge quasi da sequel spirituale: l’anticristo è nato, adesso bisogna crescerlo. Focus della pellicola è però il mistero che ruota attorno a questa figura: semplice bambino che involontariamente causa incidenti o vero e proprio figlio del demonio? Fino alla conclusione della pellicola la risposta aleggia nell’aria senza mai risultare limpida e chiara, costruendo una tensione continua che culmina in scene di morte tutt’oggi degne di nota.
Alla pellicola originale fanno seguito tre film – di cui ci sentiamo di consigliare soltanto Damien: Omen II, secondo capitolo godibile ma di certo non all’altezza del capostipite – e un remake uscito il 6 giugno 2006 diretto da John Moore, che non ricevette però il successo sperato. Nel tentativo di riportare lustro alla saga viene quindi annunciato nel 2016 un prequel con Ben Jacoby alla sceneggiatura e Antonio Campos alla regia, sostituito poi dall’esordiente Arkasha Stevenson (già invece sul piccolo schermo con Brand New Cherry Flavour per Netflix). Consono aspettarsi da una pellicola del genere il classico prodotto costruito a puntino per portare spettatori in sala sfruttando un nome conosciuto ma senza avere nulla di vero da raccontare. Fortunatamente, questa volta le cose sembrano essere andate diversamente.
Non il classico horror con le suore
La giovane Margaret, dopo un’infanzia travagliata in orfanotrofio, viene inviata in un convento a Roma per prendere finalmente i voti e divenire suora. Dopo alcuni primi piacevoli momenti, la vita nel convento/orfanotrofio diviene sempre più angosciante, soprattutto a seguito della presenza di Carlita, una giovane ragazzina problematica con cui Margaret sembra sviluppare un rapporto speciale e che la porterà a scoprire inquietanti segreti.
Negli ultimi anni gli horror con protagonisti le suore sono spuntati di certo in sovrabbondanza, tra The Nun con i suoi seguiti e copie carbone, l’accoppiata Veronica e Sorella Morte di Paco Plaza, Gli occhi del diavolo o Saint Maud tanto per citarne alcuni. Pellicole in alcuni casi interessanti, in altri mediocri ma spesso pessime e fallaci. Il rischio di prendere The Omen e trasformarlo in un banale “horror con le suore” era quindi molto forte, ma ciò che questo prequel vuole offrire va ricercato in tutt’altri lidi. Ci sono le suore, certo, e svolgono un ruolo centrale nel racconto, ma la visione della Stevenson è quanto di più lontano dal canone si possa pensare: il sangue e la carne esposta la fanno da padrone come ciliegina su una torta composta di sonorità inquietanti, ambienti gotici estremamente tetri, inquietanti figure nella penombra che sfociano solo infine in numerose sequenze body horror estremamente inquietanti, facilmente ascrivibili tra le migliori degli ultimi anni, impattanti ed eccessive al punto giusto.
Non ci si dimentica però anche di raccontare una storia che, seppur si rivela come prevedibile in più di un’occasione risultando di fatto l’anello più debole della produzione, mostra diverse frecce al suo arco: diverse sono infatti le tematiche raccontate, dal terrore della maternità – mescolando quanto visto nell’originale ma soprattutto nel già citato Rosemary’s Baby –, al trattamento delle malattie mentali fino alla visione soggettiva della propria fede, culminando in un racconto in cui il concetto di bene e male si fa sempre più labile con il proseguire delle vicende che ribaltano continuamente eroi e villain in una spirale potenzialmente infinita. Ma è anche nella contestualizzazione degli eventi narrati uno degli elementi più forti, con gli anni di piombo che, tra rivolte violente nelle piazze e attacchi terroristici, risultano centrali non solo per alcune sequenze abbastanza d’impatto ma soprattutto per alcuni risvolti legati al fulcro narrativo – che non approfondiremo per evitare spoiler – mostrati al tempo stesso anche attraverso un’inevitabile sequenza accompagnata dalle hit musicali del momento ballate tra giovani in festa.
Approfondire il materiale originale
Dove l’originale si ascriveva perfettamente nella messa in scena tipica degli anni ’70, con questo prequel la Stevenson strizza invece l’occhio alla produzione horror contemporanea in stile A24 con un formato vicino al 4:3, una messa in scena sobria, una costruzione delle inquadrature attenta alle proporzioni e ricca di dettagli visivi – aiutata in questo dall’ottima fotografia di Aaron Morton – senza mai dimenticare, come sottolineato sopra, di inquietare e spaventare nel modo giusto. Ad aggiungere valore all’opera si aggiungono poi la magnifica colonna sonora di Mark Korven, tra riarrangiamenti dei temi originali e nuove tracce, le magnifiche scenografie dal gusto gotico e i reparti trucco e costumi capaci di ricreare alla perfezione quegli anni pur mescolando elementi tipici di epoche precedenti.
Nemmeno sul fronte del cast la pellicola finisce per sfigurare, capeggiato da un’ottima Nell Tiger Free – da molti conosciuta per il suo ruolo in Game Of Thrones – capace di dare vita a un personaggio che funziona sia nei momenti più tranquilli che in quelli più inquietanti senza mai risultare macchiettistica o fastidiosa, sapientemente accompagnata dal trittico composto da Ralph Ineson nei panni di un (più) giovane Padre Brennan e da Sônia Braga e Bill Nighy nei panni rispettivamente della potente Sorella Silvia e del Cardinale Lawrence. Dispiace invece per Charles Dance, relegato a una sequenza iniziale brevissima seppur di forte impatto.
Non era certo impresa semplice quella di costruire un prequel a un film come The Omen, soprattutto se si procede con l’intento di non creare un qualcosa che sappia di già visto da un lato o una pellicola che strizzi troppo l’occhio a i fan e risulti perciò incomprensibile ai nuovi spettatori. A una distanza di quasi cinquant’anni dalla pellicola originale si è quindi optato per una via di mezzo, con una storia completamente inedita ma piena di piccoli riferimenti – nomi, foto, sequenze, musicalità – mai invasivi ma che faranno di certo piacere ai fan dell’opera originale. Tanto è positivo l’effetto ottenuto che quasi dispiace che gli eventi successivi siano già stati scritti in precedenza, soprattutto a fronte di alcune novità qui introdotte che difficilmente si concilierebbero con un seguito complementare all’originale. Un’impresa difficile, ma onestamente non del tutto impossibile.
Conclusioni
Omen: L’origine del presagio non solo riesce a essere il miglior capitolo della saga dopo l’originale, ma è anche capace di prendere un sottogenere saturo come quello dei nun-movie e riscriverlo a proprio piacimento in un racconto che mescola un’ottima tensione in atmosfere gotiche con un riuscito body horror. La regia dell’esordiente Arkasha Stevenson, aiutata da un’ottima fotografia, costumi, scenografie e musiche, mette quindi in scena uno degli horror più interessanti dell’anno (finora) soprattutto grazie a una spiccata cura per la costruzione delle inquadrature che strizza non poco l’occhio a un certo tipo di produzioni alla A24.
Il cinema horror è tutt’altro che morto e le grandi saghe, se affidate alle mani giuste, possono ancora essere capaci di dirci qualcosa e, soprattutto, di farci paura.
Nell tiger free è nota per essere la protagonista di The Servant, non di game of thrones