Di Occhiali neri è molto bello l’inizio, la prima scena, girata nel quartiere romano EUR, tra i più affascinanti e iconici della Capitale. C’è un’idea di mistero, con la gente che, dai propri balconi, solleva lo sguardo verso il cielo per assistere a una misteriosa eclissi solare; c’è un’idea di regia, con movimenti di macchina fluidi e uno sguardo alienato sulla realtà; c’è un’idea di recitazione, con un’ Ilenia Pastorelli che, con le sue movenze disarmoniche e la sua sensualità spigolosa, ci ricorda per un attimo le grandi interpreti argentiane del passato. C’è, insomma, tutto quello che mancherà nel resto di questo diciannovesimo film del maestro Dario Argento che, a dieci anni di distanza dal suo criticatissimo Dracula 3D, torna al genere thriller che ha contribuito a plasmare.
Al centro del racconto c’è la prostituta Diana che, braccata da un brutale serial killer a bordo di un furgone bianco, perde la vista in un violento incidente d’auto. La donna, in seguito, stringe un rapporto con Chin, giovane figlio di una famiglia cinese rimasta coinvolta nella tragedia, e i due si lanciano in una precipitosa fuga dall’assassino, che continua a perseguitarli.
Argento mette in scena la vicenda avvalendosi della bella fotografia di Matteo Cocco, delle notevoli musiche di Arnaud Rebotini (che ha sostituito in corsa i Daft Punk, scioltisi nel 2021) e facendo grande impiego di effetti artigianali splatter, probabilmente l’elemento migliore del film, che danno vita a un paio di scene realmente azzeccate, in particolare un azzannamento canino che rivisita, in forma più cruda, una sequenza di Suspiria. Manca, tuttavia, qualsiasi senso di tensione e brivido, complice anche la poca immedesimazione dello spettatore nei personaggi, che scontano il bassissimo livello recitativo di tutto il cast, con la parziale eccezione di Asia Argento che, in una piccola parte, è di gran lunga la migliore in campo. Ilenia Pastorelli, che fu grande in Lo chiamavano Jeeg Robot di Mainetti, fatica infatti a costruire una caratterizzazione forte del personaggio di Diana e il giovanissimo Zhang Xinyu, nei panni di Chin, è ingessato e poco espressivo, specialmente dal punto di vista dell’intonazione vocale.
Guardando Occhiali neri, poi, si ha l’impressione di assistere a un film vecchio di cinquant’anni, per scrittura, svolgimento e messinscena. Non che questo sia un difetto in termini assoluti, anzi: il film avrebbe potuto trasformarsi in un’affascinante riflessione metalinguistica sugli stilemi del cinema di genere italiano, un po’ come avvenuto di recente con Diabolik, con cui i fratelli Manetti hanno portato a compimento una raffinata operazione cinematografica nutrita dai linguaggi del nostro cinema e della nostra cultura popolare e fumettistica. Ciò, purtroppo, non si verifica nel film di Argento, che risulta solo antiquato e incapace di trovare qualsiasi punto di contatto con la contemporaneità cinematografica, finendo per risultare, a tratti, involontariamente ridicolo: quando mai nel 2022 una prostituta farebbe riferimento al pene di un proprio cliente definendolo pendolone? E anche la realizzazione stessa di diverse scene (si pensi alla sequenza dell’incidente d’auto) lascia assai a desiderare.
In fondo è impossibile voler male a Occhiali neri: è un film così ingenuo e fuori dal tempo da suscitare quasi tenerezza e una certa simpatia. Ma è anche difficile parlarne bene: se forse non è il peggiore tra gli ultimi film di Argento, certamente non è nemmeno l’annunciato “ritorno del Maestro”. È, purtroppo, l’ennesima pellicola estremamente deludente di un grande regista che in passato ha firmato capolavori indimenticabili. Proprio per rispetto nei confronti del “grande cinema argentiano”, è giusto prendere atto del fatto che quella stagione appartenga al passato e che nessuno degli ultimi film del regista, incluso Occhiali neri, possa o debba esservi accostato.
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