È l’intensità di un incontro che fa una storia.
Nell’ultimo anno il regista Ferzan Özpetek ha aperto una prolifica collaborazione con le piattaforme di streaming. Dopo aver espanso il suo film del 2001 Le fate ignoranti nell’omonima serie Disney+ e ad un mese di distanza dall’uscita della sua Istanbul Trilogy, composta da tre cortometraggi, su Netflix, è uscito da poco per lo stesso sito il suo ultimo film, Nuovo Olimpo.
La storia, come è spesso nel cinema di Özpetek, è una storia d’amore: Pietro (Andrea di Luigi) ed Enea (Damiano Gavino) si conoscono a Roma, universitari, nel 1978, all’interno del cinema Nuovo Olimpo. Trattasi di una sala cinematografica utilizzata dalla comunità gay della città come luogo di incontro, gestita dall’estroversa e gentile Titti (Luisa Ranieri). I due vivono un incontro intenso per poi venire separati dalle circostanze. Nei successivi 40 anni, continueranno a ripensare l’uno all’altro e a fantasticare su cosa sarebbe potuto essere.
Nuovo Cinema Olimpo
Come in Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore, a cui attraverso il titolo il film strizza evidentemente l’occhio, l’ambientazione del cinema e la passione per la settima arte forniscono il pretesto per raccontare altro. Anche in questo caso abbiamo una storia d’amore intensa e mai davvero terminata, fondata sul rimpianto, con tanto di inserimento di una lettera mai consegnata e ‘affidata’ al personale del cinema.
Nel caso di Nuovo Olimpo, la professione di regista di Enea ha funzione metacinematografica. I commenti che vengono fatti sui film del protagonista da lui stesso o da altri sono chiaramente ispirati a giudizi espressi nel corso degli anni attorno ai film di Özpetek: la costante della tematica dell’omosessualità, la preponderanza dell’elemento sentimentale e di quello personale, la mancanza di conclusioni vere e proprie. Con questi siparietti, il regista sembra strizzare l’occhio al suo pubblico e ai suoi detrattori e tentare di rispondere alle critiche rivoltegli nel corso della propria carriera.
Il più delle volte il risultato assume i connotati di una sorta di risposta piccata, piuttosto che di un’argomentazione vera e propria. Non aiuta il caso di Özpetek il fatto che alcuni di questi stessi elementi siano presenti in Nuovo Olimpo e che nulla, al suo interno, ne riscatti la banalità rispetto al resto del catalogo del regista.
Netflix firmato Özpetek
Di Özpetek, Nuovo Olimpo ha tutti i marchi di fabbrica: la storia d’amore tra personaggi di ceto sociale alto e la formazione di ‘famiglie’ allargate e non convenzionali, il tutto accompagnato da ambientazioni di gusto storico-lussuoso con sullo sfondo città riprese nella loro bellezza antica che fungono da catalizzatori per la passione dei protagonisti. Ci sono anche gli immancabili brani di Mina (compreso un inedito), qui citata direttamente e ripresa nello stile e negli atteggiamenti di Titti.
Tuttavia, in altri film di Özpetek il collidere di tutti o alcuni di questi elementi, per quanto già visto, poteva venir bilanciato e impreziosito da una regia precisa capace di dare il giusto peso e importanza alle ambientazioni (si veda Napoli velata). In altri casi, la formula-Özpetek riusciva cavalcando tematiche interessanti e, sopratutto, topiche nel momento della realizzazione del film stesso: si veda il caso de Le fate ignoranti, che nel 2001 portò sui grandi schermi italiani il tema dell’omosessualità, o del più recente La dea fortuna, che affronta la questione ancora oggi dibattuta dell’omogenitorialità.
Nel caso di Nuovo Olimpo, tuttavia, entrambi questi elementi vengono tristemente a mancare: il tema dell’amore perduto e rimpianto ci è stato ormai proposto in così tante salse che, per apprezzarlo, servirebbe un approccio nuovo o quantomeno interessante, nella scrittura o nell’iconografia, che qui non c’è. Gli unici spunti veramente interessanti del film vengono sviluppati nella parte finale, ma come si suol dire, in un lungometraggio di due ore risulta un po’ ‘troppo poco, troppo tardi’.
La regia, poi, non presenta grandi guizzi creativi, e anzi finisce per scadere, in alcuni casi, nel ridicolo se non addirittura nel similpornografico (questa affermazione non ha nulla a che fare con la presenza di nudi integrali maschili, ma piuttosto con la maniera in cui determinate inquadrature vengono realizzate).
Neppure le interpretazioni principali, affidate a tre volti giovani e, soprattutto, nuovi, aiutano a risollevare il prodotto finale: Andrea di Luigi, al suo debutto assoluto, incarna bene nella fisicità e l’espressività il personaggio represso, ma anche all’interno dei confini di questo ‘tipo’ non brilla (pensiamo all’interpretazione che aveva dato, in un ruolo simile, Heath Ledger ne I segreti di Brokeback Mountain); Damiano Gavino, giovanissimo protagonista della fiction Un professore, è qui al suo debutto sul grande schermo con un’interpretazione di buon livello ma certamente non memorabile. Spicca in negativo, invece, Alvise Rigo, che interpreta il compagno di Enea. Modello, bodybuilder ed ex rugbista anche lui al debutto sul grande schermo (è apparso nella fiction Che Dio ci aiuti), le doti recitative di Rigo lasciano alquanto a desiderare, tanto che verrebbe forse maliziosamente da chiedersi se non sia stato scelto solo per le sue caratteristiche fisiche.
Curioso che in un racconto così ‘al maschile’ siano in realtà le attrici a brillare. Luisa Ranieri ruba la scena nel ruolo fondamentale dell’eccentrica e malinconica Titti. Aurora Giovinazzo (che abbiamo avuto modo di apprezzare in Freaks out), pur limitata da una scrittura assai stereotipata, riesce a fornire un’interpretazione sentita di Alice, amica ‘complice’ di Enea, in particolar modo in un scena che supera in intensità diversi dei momenti vissuti dai protagonisti.
Il risultato finale è un prodotto perfettamente in linea col catalogo di Netflix, sia a livello stilistico che tematico. Se in passato la collaborazione tra la piattaforma e importanti narratori della settima arte ha dato vita a risultati più o meno riusciti ma sempre riconoscibili come ‘figli’ dei propri creatori (si pensi a The Irishman di Scorsese, Il potere del cane di Jane Campion, È stata la mano di Dio di Sorrentino o Pinocchio di Guillermo del Toro), in questo caso ciò che di caratteristico si potrebbe trovare nello stile di Özpetek viene interamente fagocitato in un prodotto da streaming perfettamente fruibile. Non basta la rappresentazione luminosa e schietta dell’eros sullo sfondo di una Roma sempre bella e perennemente antica, nell’unico e giustamente brillante incontro amoroso tra Paolo ed Enea, a risollevare le sorti di un prodotto che, come i suoi protagonisti, vive di non detti e non fatti.
Scrivi un commento