John ha trentatré anni, un lavoro come lavavetri, un figlio di quattro anni e una malattia in fase terminale. John divide le sue giornate tra il lavoro, le piccole attività quotidiane con suo figlio Michael e una ricerca che appare impossibile.

Presentato nel 2020 alla 77ª Mostra internazionale di Venezia, Nowhere Special è la terza opera del regista italiano Uberto Pasolini e racconta – con struggente tenerezza – la storia vera di un padre single che trascorre gli ultimi mesi della propria vita alla ricerca di una famiglia perfetta alla quale affidare il figlio in vista della sua prematura scomparsa. Prima che il suo tempo si esaurisca, John si trova costretto a compiere la scelta più importante della sua vita, per assicurare al figlio un avvenire il più possibile sereno, lontano dalla solitudine e dall’incertezza che egli stesso ben conosce.

Pasolini scrive e dirige un film che, di nuovo, si concentra sul tema della morte, ma lo fa, come il precedente Still Life (2013), con una dolcezza mai stucchevole e senza mai virare verso toni angosciosi. Il dramma della malattia non compare quasi mai esplicitamente sullo schermo, è tutto intuito tramite micro espressioni, gesti talvolta affaticati, rughe che chiamano stanchezza. Non è la malattia, infatti, ad essere al centro della narrazione visiva. Una storia d’amore, questo il sottotitolo italiano di Nowhere Special, e in effetti il film racconta proprio la più grande storia d’amore, quella tra un genitore – che si aggrappa ad ogni prezioso momento condiviso – e un figlio, che ancora vive l’amore in una maniera inconsapevole, ma non per questo meno potente. Ma come spiegare la morte? Come spiegare la morte a un bambino? La necessità di una nuova famiglia? Mentre John cerca queste risposte e si prepara a dire l’addio più doloroso – che non è certo quello alla vita – Michael lo accompagna a conoscere “nuovi amici”, le aspiranti famiglie adottive, quadri viventi delle più disparate condizioni ed estrazioni sociali, relitti di vite incomplete e infelici. E se durante questa ricerca a John appare sempre più chiara la vita che non sceglierebbe per sé e per suo figlio, è invece nei vetri delle sue giornate di lavoro che spesso scorge sprazzi di vite altrui, piccoli scrigni di felice e invidiata serenità.

Un film sul dolore dell’addio, con una sceneggiatura snella ma non per questo banale o imprecisa. Inquadrature nitide e una fotografia densa di colori vivi accompagnano con gentilezza dei dialoghi efficaci pur nella loro semplicità, nell’inconsapevolezza di un bambino che candidamente sentenzia “Sei vecchio” mentre porge al padre una candelina di troppo, quella di un compleanno che non ci sarà. Come questo, sono molti i piccoli gesti che parlano, gesti di una banalità disarmante disseminati per tutta la vicenda: un acino d’uva accuratamente sbucciato, un piccolo pettine che cerca pidocchi tra i capelli fini, il tragitto verso la scuola con le falcate di padre e figlio che giocano a coordinarsi, un disegno sul braccio a imitare i tatuaggi.

A portare tutto il peso emotivo del racconto sono James Norton, nei panni di John, e Daniel Lamont, al suo esordio cinematografico. Norton interpreta un padre che vive per il figlio, indossa la forza di chi porta un grande peso sulle spalle, ma la accompagna perfettamente con la fragilità liquida di occhi rassegnati, desolati. A detta dello stesso regista, l’attore britannico è in grado di “esprimere molte cose senza recitare, senza dialoghi, senza drammi, ed è capace di restituire una vita interiore”. Il piccolo Daniel, invece, è sorprendente nella compostezza della recitazione, e alterna gli sguardi sospettosi di chi intuisce ma ancora non può comprendere ai bronci di un qualunque bambino che vuole poche semplici cose: un cucciolo, il suo pigiama preferito, più tempo con suo padre. Tra i due interpreti traspare grande intesa, tant’è che sia nei piani sequenza, che nelle frequenti incursioni della camera a mano sui loro volti – a tratti duri, a tratti commossi e impauriti – è evidente l’intensità di un legame quasi reale.

Casualmente il film è uscito nelle sale negli stessi giorni in cui anche Paolo Sorrentino, con È stata la mano di Dio, affronta il tema del (suo) lutto. Due riflessioni parallele, specchi di esperienze differenti. Da una parte lo strazio di un padre che si accusa di privare un figlio, ancora troppo piccolo, della sua famiglia e che cerca di prepararlo (e prepararsi) al commiato; dall’altra il dolore consapevole e quasi adulto di un figlio privato all’improvviso di quei punti di riferimento di cui, in realtà, aveva ancora  bisogno. 

“Ho sempre pensato di conoscerlo bene, ma davvero lo conosco bene abbastanza per questo?” 

Entrambi sono film che parlano della più grande e spesso scontata forma d’amore, di mancanze e futuri incompiuti, della nostalgia di qualcosa che ancora non si conosce e che non si conoscerà. 

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Anna Negri, Caporedattrice